Ci sono quei film epocali che fanno da spartiacque nel corso della storia del cinema. Quelle pellicole che sanno esattamente dove colpire, e colpiscono bene. Quelle opere che sono la perfetta interpretazione dei tempi che corrono e che ne fanno un quadro, una sintesi che ha del meraviglioso e del raccapricciante. Joker rientra in pieno in questa categoria, un cinecomic che non è un cinecomic, ma un film di denuncia sociale, di angosciosa, ultima e definitiva richiesta d’aiuto rivolta a una società globale che continua da oltre un secolo a perdere la bussola. Arthur Fleck (un Joaquin Phoenix da Oscar) è l’incarnazione dell’insania di questo mondo. La sua risata è l’Urlo di Munch di cui il cinema aveva un disperato bisogno.
In una Gotham City che si porta il peso simbolico di tutti i malanni della società occidentale, siamo sull’orlo del degrado. La forbice economica tra ricchi e poveri è larghissima, quasi al punto di rottura. La tensione nelle classi meno agiate serpeggia, subdola e minacciosa. Scaramucce tra passeggeri di un autobus, dispetti tra piccoli lavoratori, violenza gratuita all’ordine del giorno: un gesto di amicizia tra sconosciuti è ormai una perla di rara bellezza (come testimonia Sophie, interpretata da Zazie Beets). In questa giungla Arthur Fleck convive con una grave malattia neurologica (di cui l’inquietante e ossimorica risata è solo il sintomo più appariscente), campando facendo il clown, tentando di andare avanti con le cure offerte dai servizi sociali, subendo soprusi continui da ogni componente della società. La stessa società che lo abbandonerà al suo destino, a causa del solito, inguaribile problema del nostro mondo: “non ci sono i fondi”. I servizi sociali tagliano il budget e le cure che servivano ad Arthur non sono più disponibili.
Come chiede retoricamente lo stesso Arthur alla fine di Joker:
Cosa succede quando sommi un individuo malato e una società che lo abbandona? Semplice: il malato “scoppia”.
Arthur è solo un simbolo, perché tutta la società è malata. E quando la malattia non viene curata, essa diffonde il suo morbo e incancrenisce, come la società di Gotham City. Come la società occidentale e, nel tempo della globalizzazione, come la società mondiale.
Il male di Arthur e della città in cui vive suppurano a causa della distanza siderale che si è creata con l’élite e la classe dirigente della città. Anche qui c’è un uomo simbolico: Thomas Wayne, padre di Bruce Wayne (il futuro Batman). Thomas è l’incarnazione di una società elevata che ha dimenticato il contatto col resto del mondo, rinchiusa nelle sue magioni, nei suoi convegni, nelle sue conferenze, nei suoi ritrovi. Protetti da spesse mura, alti cancelli e numerosi poliziotti, gli uomini di cui Thomas è rappresentante sono ciechi, incapaci di comprendere la causa del malanno della società, incapaci soprattutto di ascoltare. Thomas, che decide di candidarsi a sindaco di Gotham City, è quindi sorpreso dell’astio che la popolazione nutre nei suoi confronti: perché aggrediscono me, che li voglio aiutare?, si chiede in un’occasione.
Joker è quindi la rappresentazione di un mondo in cui i buoni non ci sono più, o se esistono si nascondono, come Sophie. La portata di questa pellicola trascende i confini del semplice fumetto, assumendo toni polemici e politici. È lo specchio del nostro presente e del nostro futuro se non succederà qualcosa di buono che cambi drasticamente direzione al corso degli eventi. A vestire i panni del sintomo massimo di questo malanno è l’antieroe Arthur Fleck. La sua trasformazione in Joker, il villain per antonomasia e la storica nemesi di Batman, viene descritta attraverso un film deviante quanto il suo protagonista, sconvolgente nel montaggio e inquietante nell’interpretazione di Joaquin Phoenix. Quei suoi balletti lenti e dissennati, perfettamente trainati dai tetri violoncelli di Hildur Guðnadóttir… viene la pelle d’oca.
A livello cinematografico, Joker segue la lezione soprattutto di Martin Scorsese, con Taxi Driver e Re per una notte presi a modello. La conversazione fittizia tra Arthur e la poltrona è più di un richiamo allo “Stai parlando con me?” di Robert De Niro, altro interprete di spicco proprio di Joker. Ma anche le atmosfere ricreate, le dinamiche tra i personaggi e le loro identità sembrano figlie della mano del grande regista Martin. In realtà, è Todd Phillips il regista di questo capolavoro, capace di realizzare non solo un grande cinecomic per adulti (altro che Deadpool), ma un grande film.
Alla fine dei titoli di coda si esce travolti, traumatizzati, sconvolti e deviati. Questo film va al cuore del problema, lo sviscera e poi lo maschera con i panni del Joker dei fumetti, il pericoloso criminale che abbiamo conosciuto dalle opere della DC Comics. Questo film segna il passaggio da Fleck a Joker, da antieroe a villain, da semplice clown della società (calpestabile e inutile) a demoniaca risata del Caos. C’è una frase fondamentale che appare a un certo punto del film: We are all clowns. Ecco: se questa pellicola mostra uno dei futuri possibili e se non staremo attenti per agire in fretta, tutti noi potremmo essere il Joker.
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