La maestosa e magistrale Sophia Loren torna a recitare dopo dieci anni di assenza dal grande schermo. L’attrice campana è la protagonista del nuovo film Netflix che vede alla regia il figlio Edoardo Ponti. La Vita Davanti a Sé ci regala una commovente e delicata trasposizione dell’omonimo romanzo. Un dramma multiculturale e intergenerazionale profondamente attuale.
Mentre oggi la settima arte è pregna di lavori ed attori “usa e getta”, a 86 anni Sophia Loren ci ricorda quanto il ventennio post seconda guerra mondiale sia stato fonte d’ispirazione autentica per tutta l’industria cinematografica. Regalando, a cinquant’anni di distanza, proprio quando non ci credevo più, un film d’autore toccante, degno delle migliori produzioni internazionali degli anni Sessanta.
La Vita Davanti a Sé dipinge una realtà micidiale, che gioca tra passato e presente
Il regista Edoardo Ponti dirige ancora una volta – dopo il dramma Cuori Estranei (2002) e il mediometraggio Voce Umana (2013) – la sua iconica e leggendaria madre, cogliendo sfumature nuove che solo lui poteva trovare. Sophia Loren veste i panni di una sopravvissuta all’olocausto italiana nell’adattamento sentimentale del romanzo di Romain Gary del 1975. Ma, oltre alla straordinaria interpretazione dell’attrice partenopea, a sorprendere è anche il co-protagonista Ibrahima Gueye, alla sua prima esperienza sul grande schermo.
L’opera letteraria aveva già avuto un adattamento cinematografico nel 1977, riscuotendo un grande successo. Il film, che allora vide alla regia Moshé Mizrahi e come protagonista Simone Signoret, vinse l’Oscar come Miglior film straniero nel 1978. Tuttavia, Ponti riprende la storia, ma si discosta dall’ambientazione degli anni Settanta. Mentre The Life Ahead è tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary, il regista e il co-sceneggiatore Ugo Chiti hanno spostato l’ambientazione dalla Francia della seconda metà del Novecento, alla Bari dei giorni nostri.
Come molte opere cinematografiche, anche La Vita Davanti a Sé si affida alla garanzia di una struttura a flashback
Nel capoluogo pugliese, avvolto dai drammi d’attualità, facciamo il nostro incontro con Momo (Ibrahima Gueye), un orfano rifugiato senegalese di 12 anni, cresciuto sotto le cure del gentile dottor Coen (Renato Carpentieri). Dopo essere stato arrestato per aver tentato di rapinare Madame Rosa (Sophia Loren), un’ex prostituta ebrea, reduce da Auschwitz, che accoglie in casa propria i figli delle colleghe che non sanno dove lasciarli, il ragazzo viene affidato alla donna.
Sophia Loren e Ibrahima Gueye tengono le redini di una storia di emarginati, in una Bari colma nelle sue contraddizioni.
I due apparentemente non hanno niente in comune e ci sembrano nettamente agli antipodi per età, cultura, religione, carattere. Ma, dopo un inizio burrascoso, fatto di contrasti e litigi su punti di vista differenti, Momo e Madame Rosa scoprono di essere molto più simili ed affini di quanto potessero mai immaginare. Il passato di lei si scontra e si incontra con il presente di lui.
L’esperienza dolorosa del ragazzino lega con la sofferenza soffocante della donna, il trauma dell’olocausto viene rivelato da quel maledetto numero tatuato sul braccio. Il loro rapporto va in crescendo sequenza dopo sequenza, fino ad appiattire le divergenze e fornendo un canale naturale per esplorare paralleli storici che perforano i confini culturali e generazionali tra di loro.
“È proprio quando non ci credi più che succedono le cose più belle”
La Vita Davanti a Sé, inoltre, delinea una serie di personaggi secondari tutti intenti ad aiutare Momo nel suo percorso di vita. Incontriamo Lola (Abril Zamora), intrigante donna trans che vive nel loro condominio, e il signor Hamil (Babak Karimi), un negoziante musulmano che impiega Momo e gli fornisce una guida genitoriale aggiuntiva. Poi c’è anche il compagno di stanza (Iosif Diego Pirvu) con cui litiga sempre, ma a cui in fondo vuole un bene fraterno.
Nonostante la sceneggiatura possa sembrare all’inizio prevedibile e convenzionale, dettata anche da uno stile classicheggiante e didascalico, l’ambizione registica di Ponti riesce ad andare oltre e, grazie ad una fotografia calda e minuziosa esaltata attraverso delle riprese dall’alto, mantiene un ansioso naturalismo costruito attorno alle disavventure di Momo in una città che se da una parte lo accoglie e lo indirizza, dall’altra lo corteggia ad una vita criminale.
Ed è qui che interviene il regista, manifestando chiaramente come sia possibile scegliere una via giusta, anche se più difficile, piuttosto che strade malavitose. Ponti offre al pubblico un delicato remake contemporaneo, ambientato nel fulcro della crisi dei migranti euromediterranei.
A rendere La Vita Davanti a Sé drammaticamente commovente è il finale affidato alla canzone colonna sonora Io Sì (Seen), interpretata da Laura Pausini e scritta da Diane Warren insieme a Niccolò Agliardi, che corre di diritto verso gli Oscar.
Dunque, la regia di Edoardo Ponti è persuasiva e naturale. L’ammirazione per i grandi maestri del neorealismo del cinema italiano è evidente, nonostante adotti una narrazione melodrammaticamente più lucida e meno sottile rispetto a quella di Fellini, per esempio. Tuttavia, è raffinato e mai sdolcinato nel raccontare un storia che è rigorosamente sentimentale.
Ho apprezzato il fatto che ha scelto di tingere lo stile classicheggiante con dei chiari riferimenti alla regia di Ozpetek o Almodovar. Esemplare il ballo in salotto tra Sophia e Abril Zamora.
Ma a rendere La Vita Davanti a Sé un film da Oscar è l’interpretazione maestra di Sophia Loren, che torna a vestire i panni di una donna del popolo.
Dalle storiche interpretazioni nelle commedie classiche alla sua appassionata svolta nel dramma sulla seconda guerra mondiale ne La Ciociara di Vittorio De Sica, che l’ha resa la prima attrice a vincere un Academy Award per un ruolo in lingua straniera, la Loren è diventata simbolo di femminilità e sensualità del cinema internazionale. Tuttavia, ha saputo slegarsi – quasi – totalmente dalla sua fisicità esplosiva e preponderante, per affermarsi come interprete sbalorditiva.
Passionale, materna, glamour, sanguigna, magnetica, autentica e grintosa. Tutte qualità che emergono in un ruolo che rende giustizia al suo immenso talento. Il suo umorismo naturale, offerto dall’accento napoletano, e il pathos espressivo, dettato da un volto scavato e provato dalla tragicità degli eventi, conferiscono al film una qualità prepotente ed appagante.
Per concludere, amicizia, amore, tolleranza e perdono camminano a braccetto in questa storia che racconta la giovinezza di un immigrato e la vecchiaia di una sopravvissuta. Strizzando l’occhio al politically correct e offrendo al pubblico spunti di riflessione interessanti in quello che è uno dei migliori film italiani del 2020.
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