Lacci è stato il primo film italiano ad aprire la Mostra del Cinema di Venezia dalla Baaria di Tornatore nel 2009. Daniele Luchetti porta sullo schermo una storia di matrimonio, ma non come quella che abbiamo visto in Marriage Story. Invece di esaminare la furia distruttiva di un divorzio, il regista scava in profondità, racconta i precari equilibri familiari che viaggiano nel solco di quattro decenni.
Lacci è basato sul romanzo dello scrittore napoletano – e co-sceneggiatore – Domenico Starnone. In molti sono a conoscenza che Starnone pare sia il marito di Elena Ferrante – alias di Anita Raja, traduttrice di origini polacche – una delle autrici italiane più lette degli ultimi anni, nonché ideatrice della fortunata tetralogia de L’Amica Geniale. Ecco, io questa notizia, resa nota dal Sole 24Ore a fine 2019, l’ho saputa solo dopo aver visto il film di Luchetti. Solo dopo aver ritrovato nell’opera cinematografica, in qualche modo, degli echi provenienti dalla Ferrante.
E’ impossibile non accorgersi che in Lacci, così come è stato per L’Amica Geniale, vengono sventrati tutti quei cliché della famiglia italiana tradizionale (in)felice. Si scava nei dettagli del danno che le persone possono arrecarsi l’un l’altro come coniugi, come genitori, come fratelli e come amici. Lacci è un dramma domestico a tutto tondo, trasmette le minuzie più banali e rifinisce aneddoti e verità dolorose che diventano, nel tempo e spesso inconsciamente, il tessuto stesso della storia familiare.
Ci troviamo negli anni Ottanta in una Napoli affascinante dai colori accesi. E’ qui che vive la coppia formata da Aldo (Luigi Lo Cascio) e Vanda (Alba Rohrwacher), in un appartamento disordinato con due bambini arrivati forse troppo presto per godersi la spensieratezza della gioventù. Lui è un intellettuale introverso, parla di attualità e cultura in un’importante stazione radiofonica. Lei è un’insegnante precaria insoddisfatta. Entrambi si sono trovati prede di un mondo che è cambiato troppo rapidamente, dove i nuovi scenari sociali hanno offuscato il rapporto coniugale e la famiglia è diventata un peso e non un valore aggiunto.
Da un momento caldo di felicità di facciata, composta da storie della buonanotte e programmi televisivi condivisi in famiglia, passiamo ad una fredda lite in cucina, dove Aldo rivela a Vanda che si è innamorato di un’altra donna. La moglie, straziata dalla notizia, lo caccia di casa quella notte stessa. E alla fine a lui va bene, perché è uno spirito libero che vede nelle mura domestiche una prigione da cui evadere.
Ed è così che ci spostiamo a Roma, dove Aldo raggiunge la sua nuova compagna Lidia (Linda Caridi), cedendo la custodia dei bambini a Vanda e disinteressandosi, quasi totalmente, della sua ormai vecchia vita familiare. Eppure, nonostante la lontananza abbia dissipato i sentimenti e la salute mentale precaria, Vanda conserva ancora la speranza che il marito torni a casa.
«Non è solo una questione di amore, è una questione di lealtà»
Con un abile tocco di regia, veniamo catapultati nei giorni nostri. Incontriamo Aldo e Vanda – interpretati rispettivamente da Silvio Orlando e Laura Morante – sulla sessantina che vivono insieme e litigano, ancora, incessantemente. Il tempo li ha rimessi insieme, forse, ma non ha cancellato le incomprensioni che negli anni hanno generato risentimento e rancore. I figli, Anna (Giovanna Mezzogiorno) e Sandro (Adriano Giannini), ormai cresciuti, hanno una vita loro che li ha portati ad essere cinici e indifferenti.
Da questo momento in poi, la sequenza temporale si muove in modo irregolare avanti e indietro nel tempo, mentre Luchetti, grazie ad una struttura a flashback, ripercorre i passi della coppia, sia per raccontare eventi mai visti prima, sia per rivisitare scene già viste ma da una prospettiva del tutto diversa.
Che cosa è successo ad Aldo e Vanda in questi 30 anni? Lidia che fine ha fatto? Cosa c’entra il furto nell’appartamento? Cosa è disposta a fare Vanda per salvare il suo matrimonio? Che significato hanno per Aldo le foto di Lidia nascoste in una scatola custodita gelosamente? Per tutta la durata di Lacci ci facciamo queste domande. Per poi capire che quei “lacci” sono una metafora emotiva, una sorta di forza invisibile che tirano Aldo verso Vanda e verso quel nucleo familiare che tanto gli stava stretto e che vuole riconquistare ad ogni costo.
Valore aggiunto di Lacci è un cast variegato, incastrato perfettamente da Lucchetti. Se Luigi Lo Cascio racconta magistralmente un egoista Aldo da giovane, con occhi spenti e il volto scavato, Silvio Orlando, nella versione adulta, ci presenta invece un uomo distrutto dai sensi di colpa. Stessa cosa riguarda il personaggio di Vanda. Alba Rohrwacher regala un’interpretazione intensa e profonda, mentre Laura Morante ci passa, attraverso uno schermo, quel suo dolore interiore che ha imparato a cicatrizzare.
Bravissimi i piccoli che hanno interpretato Anna e Sandro, ma ancora più bravi Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini che, nonostante il poco spazio, sono stati superlativi nella sequenza finale. Protagonisti, forse, del momento più importante del film, dove si coglie l’essenza di Lacci, e che hanno saputo toccare in maniera teatrale – nel senso positivo del termine – l’immaginazione dello spettatore. Menzione a parte vorrei fare a Linda Caridi che, dopo Ricordi?, si è saputa imporre coraggiosamente, confermando il suo talento.
Girato in uno stile caldo, con inquadrature ravvicinate per regalarci quelle sensazioni soffocanti che può generare la vita domestica, come una sorta di prigione emotiva che la coppia si è costruita, Lacci è una sorta di narrazione sull’autocompiacimento maschile. Un ritratto di un uomo debole e indeciso che pensa sia un intellettuale stimato e stimabile, ma non fa altro che scegliere la via più facile e codarda. L’unico appunto da fare è al ritmo tendenzialmente statico che poco si sposa alla narrazione non lineare che avrebbe meritato sequenze più dinamiche e meno rigide.
In definitiva, Lacci è costruzione e distruzione. E’ il rumore profondo che fa un matrimonio quando si rompe, è il sangue che fuoriesce dalle ferite mai rimarginate anche quando si è deciso, con sofferenza, di tornare a credere in una felicità passata.
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