C’è momento, a 7000 rpm, in cui tutto svanisce. La Macchina diventa senza peso. Scompare. Resta un corpo che attraversa lo spazio e il tempo.
E’ questa la frase iconica di Le Mans ’66 – La Grande Sfida, il nuovo film di James Mangold, che uscirà in novembre nelle sale italiane. Un film fortemente voluto, e che, per stessa ammissione del regista in fase di conferenza stampa, realizzabile solo grazie al successo dell’acclamato Logan.
Mangold è un regista estremamente duttile: se non ve ne ricordate, Ragazze Interrotte, che lanciò Angelina Jolie, è suo. Come suoi sono anche Cop Land, Quando L’amore Brucia l’Anima, 3:10 per Yuma. Eppure, sembra che questa sia la prima volta che il regista newyorkese e la sua troupe, che lo segue da anni, abbiano la possibilità di lavorare con un budget quasi illimitato.
Siamo al giro di boa degli anni ’60. Carroll Shelby, interpretato da un Matt Damon finalmente tornato in forma, è stato l’unico americano a vincere la durissima corsa della 24 ore di Le Mans nel 1959: successivamente a ciò, dovette ritirarsi per un problema al cuore. Si mette così a vendere automobili, peraltro progettandole anche con parti di ricambio acquistate da Ford, Chevy, e diviene amico del suo collaudatore Ken Miles, un sorprendentemente poco inquietante Christian Bale. Irascibile, ma colmo di passione e di amore per le auto e per la sua famiglia, composta dal piccolo Peter (Noah Jupe) e da Mollie (Caitrona Balfe), è un ex pilota di contraerea della seconda guerra mondiale. Nel frattempo, in casa Ford, Lee Iacocca (Jon Bernthal, sì, lui, il Punitore), responsabile del marketing, si convince e convince Henry Ford II (Tracy Letts), l’Indiavolato, che per combattere la tremenda minaccia della Chevrolet, bisogna annientare le Ferrari di Enzo Ferrari (Remo Girone, che recita in italiano) in pista. Inizia così una stramba collaborazione col team di Shelby, che spinge per avere fra i piloti di punta della nuova automobile proprio Ken Miles, che collabora attivamente allo sviluppo del bolide, che parteciperà a Le Mans ’65. In un mondo, dunque, di ottani e leghe di alluminio, di pasticche dei freni bollite come caramelle, l’amicizia e il talento si ritagliano un grande spazio nella storia.
Partiamo da un presupposto: tutti i film di macchine, a partire da quello di Steve McQueen, Le Mans del 1971, sono noiosi. Rush di Ron Howard non è, invero, noioso, perché dipinge l’affresco di un rapporto umano, la dedizione di un uomo al suo lavoro e la sua antitesi. Come ci ha detto Mangold in conferenza stampa:
Mi sono sempre domandato cosa ci trovassi di così noioso nel guardare la Formula Uno in tv. Ed ho capito perché: manca il lato umano. Si vedono solamente automobili che si sorpassano, che prendono curve, ma non si vede e non si sente ciò che prova il guidatore, cosa succede nell’abitacolo, la fretta che c’è ai box, il lavoro che c’è dietro. E così ho deciso di rendere questo film, assieme alla squadra di montaggio [Michael McCusker e Andrew Buckland, ndr], il meno noiose possibile. Credo di esserci riuscito.
Effettivamente Le Mans ’66 è un lavoro energico.
Fatto di stacchi espressivi e riprese allucinanti, esattamente come nelle corse; è un lavoro fortemente tecnico, sia per l’ingente ricerca storica che c’è stata dietro alla ricostruzione delle automobili dell’epoca, che per la curatissima scenografia di François Audoy. Nelle sezioni ai box durante la gara, tutto è perfetto e nulla è lasciato al caso: dai bocchettoni per la benzina ad alto numero di ottani, ai martelli, agli impianti frenanti surriscaldati rosso intenso.
Ed energia sottoforma di calore e vapore fluisce anche dalle performance di Bale, Damon, Bernthal, e l’appassionato Remo Girone – il cui monologo di improperi contro la Ford è memorabile – che danno vita a dei personaggi reali, e quasi sparisce la sensazione di guardare un film, quanto più un racconto d’epoca vissuto in prima persona. Il Ken di Bale, attore eccelso e adattabile, soffre per e sposa la sua auto e vive attraverso essa, attraverso il brivido che si prova ad essere il migliore – non senza sacrificio: eppure la sua GT40 entrerà nella storia. L’esplosione di vita quale è il texano Shelby è ben caratterizzata da Damon, che non rinuncia a giocare con gli accenti e rimarca la provenienza texana del personaggio. La coloratissima e curatissima, soprattutto per quanto riguarda le sezioni in corsa, sotto la pioggia, o di notte, fotografia di Phedon Papamichael, storico direttore della fotografia di Mangold, impreziosisce e dona una bellezza quasi da musei ai reperti cromati dei grandi motori bollenti e alle gomme consumate. Le tute ignifughe, quelle che non protessero il volto di Niki Lauda, sono ottimamente disegnate da Daniel Orlandi.
La sceneggiatura Le Mans ’66 tratta, invero, classicamente il rapporto cameratistico fra i protagonisti.
Che non sono nuovi a sonore scazzottate, e non sono angeli – c’è sì spazio per i sentimentalismi, ma più che altro essi, e le piccole e grandi meschinità da parte della dirigenza Ford, sono lasciati sottesi a creare un piccolo mondo antico che non esiste più. Mangold infatti dirige una storia di esseri umani, come ha sempre fatto: esattamente come ha donato a Logan, a James Howlett, a Wolverine, la dignità di morire come un essere umano e non come un semidio irraggiungibile, i personaggi e gli ottani di Le Mans ’66 possiedono una forza vitale straordinaria.
Le Mans ’66 piacerà, in tutte le sue portentose due ore e mezza, agli appassionati di auto, ma anche agli amanti di quei grandi film americani come The Green Book; quei film che raccontano sì una storia vera, ma che lo fanno con la forza dell’amicizia stessa che l’ha resa possibile. In sostanza, un’altra gigantesca promozione per il regista.
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