È in sala dal 27 aprile Beau ha paura, il nuovo film di Ari Aster (Hereditary, Midsommar) prodotto dalla A24 (reduce dal trionfo agli Oscar con Everything Everywhere All at Once).
Come per altri suoi colleghi della nuova ondata del cinema horror d’autore, Jordan Peele e Robert Eggers sopra tutti, il giovane regista, arrivato al suo terzo lungometraggio, si confronta con un budget considerevole (circa 35 milioni di dollari, la cifra più alta sborsata dall’azienda statunitense finora) e ben più elevato di quello dei suoi precedenti film, scegliendo una strada però tutt’altro che commerciale e accessibile; prendendo come spunto iniziale l’idea di base del suo corto Beau (2011), Aster dà vita infatti a un’opera coraggiosa e a tratti respingente, a metà tra Lynch e Charlie Kaufman, destinata a dividere il pubblico e far parlare di sé, nel bene e nel male.
Il nuovo parto della mente di Ari Aster ha inizio, per l’appunto, con un parto vissuto dallo spettatore in soggettiva, che ci catapulta immediatamente nella vita del protagonista, segnata fin dalla nascita, o forse addirittura fin dal momento del suo concepimento, dal trauma, dalla sofferenza, dal disagio di stare al mondo. Molti anni dopo ritroviamo Beau (Joaquin Phoenix) catapultato in un incubo metropolitano da cui sembra impossibile fuggire, una sorta di futuro distopico dove la tipica violenza americana è esasperata fino al grottesco (quasi un’estremizzazione della metropoli del Joker di Todd Phillips).
In questo mondo terribile, in cui persino la più ordinaria e insignificante delle azioni, come scendere sotto casa per comprare una bottiglietta d’acqua, si trasforma in un calvario, l’ansioso e inerme Beau si ritroverà a dover affrontare le proprie paure più recondite in un viaggio per raggiungere la madre Mona (Patti LuPone) e festeggiare l’anniversario della morte del padre, bisogno reso ancora più urgente a seguito di una sconvolgente telefonata ricevuta dall’uomo. Ha inizio così un’epopea che metterà a dura prova la mente e il corpo di Beau, continuamente e suo malgrado sballottato tra una situazione grottesca e l’altra, in cui tutto e tutti sembrano essere contro di lui e volerlo ostacolare nel raggiungimento del suo obiettivo.
Tra serial killer a piede libero, veterani di guerra impazziti, adolescenti autolesionisti, quello di Beau si rivelerà essere un viaggio freudiano alla scoperta tanto del mondo che lo circonda che di sé stesso, un’immersione dentro a un incubo in cui realtà e allucinazione si confondono fino quasi a sovrapporsi, lasciandoci sempre con il dubbio che quanto sia accaduto non sia solo frutto della mente scombussolata del protagonista.
Abbandonando l’horror apparentemente più lineare e classico dei precedenti film del regista in favore di un’assurda commedia pregna di humor nero, che lascia spazio a momenti drammatici e ad altri di orrore puro, Beau ha paura risulta essere un oggetto a tratti inclassificabile, che per i suoi quasi 180 minuti di durata complessiva assume, man mano che cambiano le ambientazioni del viaggio di Beau, toni e stili di messa in scena diversi, nonché bruschi cambi di ritmo che ne minano in parte la struttura complessiva.
Dopo un inizio al cardiopalma, il film si fa via via più statico e perde gran parte della spinta che aveva avuto nella prima parte, smarrendosi all’interno di un viaggio che forse ha avuto inizio ben prima e che attraversa tutte le fasi della vita del protagonista, dall’infanzia (il giovane Beau è qui interpretato da Armen Nahapetian, impressionante nella sua somiglianza con Joaquin Phoenix) fino alla vecchiaia.
Questa discrepanza tra i suoi vari atti è esplicitata anche dal fatto che il climax emotivo del viaggio di Beau lo si raggiunge in una lunga sequenza nella parte centrale del film, quella in cui l’uomo, in uno dei pochi momenti di rilassamento che gli sono concessi, assiste in un bosco a una rappresentazione teatrale ad opera di una compagnia itinerante, una sorta di epopea dentro l’epopea in cui Beau si confronta forse con quello che poteva essere della sua vita, fantasticando di un viaggio ben più eroico e avvincente di quello che ha effettivamente vissuto; un momento di cinema veramente speciale, in cui Aster fonde il live-action con l’animazione (viene fatto largo uso della stop-motion) avvalendosi della collaborazione dei due registi cileni Cristóbal León e Joaquín Cociña, autori dello straordinario horror animato La casa lobo (2018).
Al netto di alcuni svelamenti interessanti, il gran finale è invece per lo più ridondante, deludente, finanche irritante, e cerca di provocare lo spettatore in maniera alquanto maldestra e didascalica (il momento del disvelamento finale nella soffitta/inconscio era molto più riuscito in Hereditary). Sembra voler dire tante, forse troppe cose Aster, a partire da un’evidente metafora politica sulle dipendenze farmacologiche, sull’utilizzo scellerato delle pillole che si fa negli Stati Uniti e sui disturbi sociali che ne conseguono, passando per le tematiche già care al regista nelle sue precedenti opere, quali una genitorialità soffocante e che nasconde misteri e traumi mai del tutto risolti, che ricadono sui figli come pesanti fardelli segnando per sempre le loro esistenze.
Apparentemente spiazzante, Beau ha paura segue in realtà perfettamente il solco tracciato dal regista fin dal suo disturbante corto d’esordio The Strange Thing About the Johnsons (2011, recuperabile su YouTube), andando a completare una sorta di trilogia familiare in cui però, stavolta, il viaggio è totalmente pessimistico e senza sbocchi, e alla fine non c’è spazio per la resurrezione o per una nuova consapevolezza di sé. Il film a tratti incespica, si affanna proprio come il suo protagonista, uno straordinario Joaquin Phoenix che si dona anima e, soprattutto, corpo nell’interpretare questo maschio impotente e incapace, mai del tutto cresciuto e inadatto a stare al mondo, succube di un amore materno asfissiante e costantemente osservato e guidato nel suo cammino, come in un Truman Show da incubo.
In parte schiacciato da una lunghezza eccessiva e da un ritmo molto incerto, Beau ha paura rimane comunque un’opera strana e affascinante, che trova la sua forza nella voglia di sperimentare con generi e stili diversi e che richiede sicuramente più visioni per essere compresa del tutto, confermando il talento e il genio di Ari Aster nonché la voglia della A24 di scommettere su alcune delle voci più interessanti del cinema americano contemporaneo, concedendo una libertà che in questo caso risulta essere forse un’arma a doppio taglio.
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