Dal 1° maggio su Netflix è arrivata Hollywood, il nuovo lavoro di Ryan Murphy, che firma anche la sceneggiatura. La serie, ambientata a fine anni ’40, ha la capacità di alzare il sipario e raccontare, senza filtri (e musical), il dietro le quinte dello star system americano
Nella seconda metà della storia del cinema, l’essere coloured non era certo cosa gradita agli studios, vittime del razzismo culturale che relegavano i pochissimi attori di colore a ruoli subordinati e, spesso, caricaturali. Persino Louis Armstrong appariva nelle pellicole solo in quanto “Louis Armstrong”. Guardando indietro, alla storia della Golden Age, possiamo dire che, in un certo senso, è stata Sidney Poitier ad aver aperto la strada all’afroamericano nel mainstream, anche se attraverso pellicole che non prescindevano dal colore della sua pelle.
Inoltre, come in qualsiasi altra area della società, il progresso e l’uguaglianza nell’industria dell’intrattenimento è lento e sconfortante ancora oggi, figuriamoci negli anni ’40 dove “la fabbrica dei sogni” era dominata, in modo schiacciante, da uomini bianchi e rigorosamente eterosessuali, e le storie omosessuali erano considerate rischiose o potenzialmente offensive.
Discriminazione razziale e omosessuale sono i due dei temi centrali affrontati in Hollywood, la nuova serie Netflix in sette episodi.
Hollywood è una storia alternativa e rivoluzionaria, un racconto della Golden Age di fine anni ’40
La serie è basata vagamente sulle memorie di Scotty Bowers, in cui racconta quando, durante il suo lavoro in una stazione di servizio a Los Angeles, forniva servizi sessuali a celebrità che andavano a fare il pieno. Quando i clienti si fermavano alla stazione di servizio, usavano una parola in codice per indicare il desiderio del “pieno servizio”: si tirano su, abbassano i finestrini e dicono ai ragazzi del distributore di benzina “voglio andare a Dreamland”. In questo modo, la storia culturale di Dreamland prende nuove sembianze: subdole, squallide ed opportunistiche.
Nella serie, il proprietario del distributore è Ernie (Dylan McDermott), anche protettore di Jack Castello (David Corenswet), un veterano di guerra che vuole diventare una star del cinema ma che deve provvedere al sostentamento della moglie (Maude Apatow) incinta mentre insegue il suo sogno di diventare attore. Jack ha tutte le carte in regola per farcela: è bello, bianco e alto, ma la strada per il successo è tutt’altro che facile.
Tra gli uomini di Ernie c’è anche Archie Coleman (Jeremy Pope), uno scrittore, gay e nero, che cerca di vendere la propria sceneggiatura di un film. Il progetto trova un appassionato in Raymond (Darren Criss), un giovane regista idealista che vede la sceneggiatura come un’occasione per lanciare carriera della sua ragazza, Camille (Laura Harrier).
Ma il “problema” – nella Los Angeles di fine anni ’40 – che anche Camille è nera, rilegata nei ruoli secondari come cameriera e costantemente incalzata nel leggere le sue battute come se fosse l’attrice afroamericana Hattie McDaniel. In una sequenza successiva, vediamo la McDaniel ricordare di aver atteso il suo Oscar per “Via col vento” in un hotel separato, perché non poteva assistere alla cerimonia in platea accanto agli attori bianchi. Quello di Camille è un ostacolo che di certo non ha la sua rivale Claire Wood (Samara Weaving) che, oltre ad essere la figlia dei proprietari degli studios, possiede lo standard di bellezza accettata ad Hollywood.
Intorno alla storia girano Henry Willson (Jim Parsons), un agente gay, freddo e calcolatore, che decide di seguire l’aspirante attore Rock Hudson (Jake Picking). Quest’ultimo è un ragazzo fragile e di poco talento, innamorato di Archie e dal passato difficile. Quello di Henry è un personaggio complesso e controverso, un uomo che non fa altro che usare il suo potere e la sua influenza per depredare giovani attori fiduciosi. Disegnato come una sorta di cattivo e manipolatore, ma non è altro che un manager represso che non fa altro che mettersi di traverso.
Tuttavia, le cose per i ragazzi si mettono bene. Jack entra in contatto con Ace Pictures, uno studio che vuole assumere nuovi talenti della recitazione. Archie riesce a vendere la sua sceneggiatura allo stesso studio. Mentre Raymond finisce per rimanere attaccato a quel progetto come regista. Il film su cui Archie e Raymond iniziano a lavorare si chiama “Peg” ed è basato sulla vita di una donna di nome Peg Entwistle che si suicidò dopo essere saltato giù dalla “H” della scritta Hollywoodland.
Dopo le pressioni di Raymond e di alcune politiche interne dello studio – guidato dalla moglie di Ace (Rob Reiner), capo degli studios, Avis Amberg (Patti LuPone) e scatenate da un pranzo con Eleanor Roosevelt (Harriet Harris) – il film prende un nuovo nome, un nuovo cast e diventa, così, un progetto rivoluzionario, onirico, che cambia la storia di Hollywood, spianando la strada a coloro che, fino a quel momento, erano gli emarginati. Senza svelarvi niente su quello che poi sarà ben raccontato durante i 7 episodi, possiamo anticiparvi che il film diventa una luce di speranza e di apertura per tutta Hollywood.
Quello pensato da Raymond e Archie è una produzione storica che sgretola le fondamenta su cui si era poggiata l’America fino ad allora. E’ un altro Dreamland – diverso da quello pensato da Ernie – fondato su una scala più ampia e universale. E’ una visione della storia dei primi film basata non sulla plausibilità o sui cambiamenti ponderati o su un esperimento di pensiero narrativo, ma come un grande gruppo coeso impegnato a rovesciare quello che era considerato “normale” fino a quel momento. Il risultato finale è una storia edificante e piena di speranza per le generazioni future e per chi vede nel cinema un’ancora su cui aggrapparsi.
Hollywood confida nell’idea che il cinema è portatore di uguaglianza, capace di scacciare una monocultura imperante
La serie di Murphy cattura perfettamente le immagini e le atmosfere della Los Angeles di fine anni ’40. Così come raccontati, gli Ace Studios sono sostituti credibili degli attuali studi cinematografici. I colori, gli abiti, i modellini di automobili: fanno tutti parte di una scenografia che ci catapulta negli anni della Golden Age. L’attenzione ai dettagli – dalla decorazione scenica nell’appartamento squallido di Jack, agli abiti da uomo a vita alta, alla moda conservatrice sfoggiata da Avis, agli abiti sobrio ma sbalorditivi indossati da Camille e Claire – crea una versione credibile della Hollywood post seconda guerra mondiale.
Naturalmente, il merito deve andare anche ad un cast all’altezza della produzione.
Dylan McDermott, ad esempio, è perfetto nel ruolo di mascalzone e diabolico holllywoodiano. Patti LuPone è magnetica nei panni di Avis, una donna apparentemente rassegnata al suo ruolo di moglie casalinga annoiata, fino a quando le circostanze non riaccendono la sua passione e le conferiscono una nuova posizione di potere e influenza.
Darren Criss è una certezza – impressionante la sua fiducia quando dietro la macchina da presa c’è Marphy – ed è bravissimo nel trasmetterci quella sua voglia di includere chi era considerato diverso. Laura Harrier è azzeccata nel farci vedere la recitazione del tempo, plastica e per niente naturale, e quella moderna, più genuina e fresca.
Le dinamiche di potere nella serie Netflix sono raccontate perfettamente, descrivendo Hollywood come un meraviglioso sogno ad occhi aperti e su cosa sarebbe successo se quelle persone ostinate fossero state nel posto giusto al momento giusto per rovesciare quel mondo sessista, classista, razzista e omofobo della politica degli studios di oltre 7 decenni fa.
Leggi anche
- Diamanti di Özpetek è un manifesto d’amore per il cinema e le donne - Dicembre 13, 2024
- Premio David Rivelazioni Italiane – Italian Rising Stars | I sei vincitori della seconda edizione - Dicembre 13, 2024
- The Bad Guy 2, il meraviglioso e dissacrante crime comedy italiano - Dicembre 4, 2024
4 commenti su “Hollywood, la serie Netflix sulla Golden Age progressista e inclusiva – Recensione”
I commenti sono chiusi.