Il Diavolo veste Prada, un film “sempre verde” che non sente addosso le stagioni che passano, un’opera imperante e cinica nei confronti di una cultura a volte troppo ossessionata dallo stile e di un’industria che si crogiola spesso nell’autocelebrazione
Il Diavolo veste Prada è tratto dal bestseller di Lauren Weisberger – pubblicato nel 2003 e tradotto in 27 lingue – probabilmente ispirato alla figura di Anna Wintour, celebre e ferrea direttrice di “Vogue” americano. Il film fu pubblicato nel 2006. All’epoca avevo 13 anni – bei tempi – e già adoravo Meryl Streep. Scontato, direte voi. Adorare la regina del cinema, colei che ha saputo letteralmente reinventare la settima arte, tra le mille interpretazioni minuziose e magnetiche, è semplice, ma non banale, questo è certo. Oltre, Meryl, però, già apprezzavo Anne Hathaway prima che Anne Hathaway diventasse Anne Hathaway. Pretty Pricess e Principe azzurro cercasi hanno fatto parte anche della mia adolescenza.
Tuttavia, qualora non l’abbiate ancora visto – ma che siete pazzi? Ma da dove venite? – vi consiglio di guardare Il Diavolo veste Prada almeno una volta nella vita. E’ uno dei film più famosi e popolari, una divertente e piacevole storia incentrata nel mondo della moda.
Negli anni ho visto e rivisto il film, non perché non l’avessi ben impresso, ma perché quando ami un’opera cinematografica è impossibile rivederla. Poi anche perché, nel corso degli anni, il punto di vista su una pellicola cambia, si modifica, matura in base alle esperienze personali, ed ho compreso che le disavventure aziendali di Andrea “Andy” Sachs (Anne Hathaway), sono le disavventure di ognuno di noi, di chiunque si sia maledetto per gli straordinari, abbia preso a calci quella macchinetta del caffè sempre nel posto sbagliato nel momento sbagliato o si sia chiesto il perché ci si è iscritti all’Università per poi rispondere al telefono e portare caffè.
Un po’ tutti siamo Andy
Andy è una giornalista, laureata alla Northwestern University. Da una piccola città si trasferisce a New York, portando con sé grandi sogni e un guardaroba di poco conto. Incapace di trovare da sola la strada per il successo personale, viene assunta come seconda assistente dall’algida e venerata Miranda Priestly (Meryl Streep), direttore della rivista più influente sulla moda, Runway. Qui incontra la prima assistente e maniaca del lavoro Emily (Emily Blunt) e il designer snob e apparente cinico Nigel (Stanley Tucci), entrambi in attesa che il lavoro da loro desiderato si materializzi.
Ben preso Andy si rende conto che per rimanere in quel mondo fatato – che poi tanto fatato non sembra – è costretta a fare delle scelte a discapito della sua vita privata, ad esempio mancando alla cena di compleanno del suo ragazzo Nate (Adrian Grenier) per partecipare a un gala di Runway. Eppure i sacrifici di Andy – ore tardive, retribuzione bassa, commissioni umili per i suoi superiori – sono solo delle parti comedy dei compromessi che molti giovani sono chiamati a fare.
Per questo, quando alla fine del film Andy torna sui suoi passi, lamentandosi di aver tradito i suoi amici e la sua famiglia per rincorrere le pretese del suo capo diabolico, l’ho trovato un eccesso di zelo della sceneggiatrice Aline Brosh McKenna. Che cosa avrebbe fatto Andy di così moralmente sbagliato? Inseguire i propri sogni?
Miranda, un capo che nessuno (o quasi) vorrebbe avere
L’avranno detto già in molti, ma Lei, la sublime e magnetica Meryl Streep impreziosisce tutto ciò che tocca, facendomi diventare simpatica un personaggio che del simpatico ha ben poco. Giustamente candidata all’Oscar come migliore attrice protagonista, il personaggio interpretato da Meryl ha carisma da vendere: stronza, abrasiva, brillante, diabolica, malvagia, intelligente e incredibilmente insensibile ai bisogni degli altri. E’ tutto questo la sua Miranda Priestly, l’Anne Wintour del grande schermo.
Miranda è la Crudelia De Mon del mondo della moda, con indosso solo ed esclusivamente abiti eleganti, dispensa ordini e imprime terrore e panico all’interno del suo staff, anche grazie alle sue entrate teatrali e aggressive. Con il suo talento Meryl ha saputo creare uno dei personaggi femminili più leggendari del cinema contemporaneo, conferendo sfumature sottili e remote ad un personaggio apparentemente unidimensionale.
Il Diavolo Veste Prada è un film sul piacere: il piacere della moda, dei sogni, degli abiti, del lusso, del potere e dell’ambizione.
E’ un’opera ben assortita e facile da guardare tutta d’un fiato, in cui il regista David Frankel mantiene il ritmo degli eventi costante. E’ una storia di maturità, di crescita professionale e personale ambientata in una luminosa New York molto fiabesca, dove quel’11 settembre sembra lontano e la vita scorre normalmente, tra caffè, commissioni, scartoffie, scelte da fare ed abiti firmati. La Grande Mela è la protagonista della sceneggiatura, la sua frenesia è raccontata perfettamente con la corsa per le strade della città.
Menzione a parte va fatta, necessariamente, ai costumi che regno sovrani durante tutte le sequenze. Molti stilisti e designer – non tutti, per non fare uno sgarro ad Anna Wintour – hanno concesso al film l’uso di capi firmati da loro, il che ha reso Il diavolo veste Prada il film con il reparto costumi più costoso della storia del cinema. Bellissima anche la colonna sonora: Last but not least.
Le musiche originali sono firmate da Theodore Shapiro che ha la capacità di rendere i suoni accattivanti e moderni, in sintonia con il film. A supporto troviamo anche famose hit internazionali come City of Blinding Lights degli U2 e Vogue di Madonna. Poi ci sono le voci di Alanis Morissette e Jamiroquai che accompagnano le vicende dei personaggi.
Il Diavolo veste Prada ha il merito di alzare il vaso di pandora su un mondo così apparentemente perfetto e cinico. E’ una commedia intelligente ed affascinante, è un affresco sincero e pulito sull’universo del glamour e delle sue tendenze vanitose.
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