In un’Italia piccolo borghese nel solco delle rivolte sessantottine, Gianni Amelio racconta, con accento melodrammatico, di un paese omofobo e bigotto, della giustizia asservita alla doppia morale e di un popolo omertosamente contraddittorio. Il Signore delle Formiche è un dramma politico, intellettuale e romantico. Eccellenti le interpretazioni.
L’Italia è un paese senza memoria, lo sappiamo bene. Una nazione povera di spirito critico e circoscritta nella sua narcosi storica. Per questo motivo un film come Il Signore delle Formiche di Gianni Amelio – presentato in concorso alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia – è un’opera fondamentale nel mostrare il vero volto reazionario ed eticamente fascista di un paese che ancora oggi fatica a guardare gli altri. È assurdo come il ‘caso di Aldo Braibanti’ è una di quelle vicende che sono state accuratamente rimosse nella nostra storia – io stessa faccio mea culpa, non ne sapevo niente – nonostante sia una ferita che fatica a cicatrizzarsi.
Una vicenda che spaccò l’Italia nel fatidico 1968
Un tuffo negli anni ‘60, in quel clima un po’ strano e contraddittorio, dove studenti e operai avevano deciso di alzare la voce ed opporsi ad un sistema vecchio, emergevano nuove correnti di libertà culturale e sessuale. È in questo scenario che si muove la storia di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), scrittore, poeta, drammaturgo, regista, filosofo, artista marxista e mirmecologo che fu processato con l’accusa di “plagio”, ma ciò non era altro che un pretesto – non troppo velato – per condannare un uomo per la sua omosessualità.
Il Signore delle Formiche si apre con un flashback in cui ci vengono mostrati momenti intimi e delicato tra Aldo ed il suo giovane allievo Ettore (Leonardo Maltese) con il quale aveva iniziato una storia d’amore. Sono solo gli attimi prima del buio. Un flashforward ci porta avanti nel tempo. Le cose sono cambiate radicalmente: Aldo viene arrestato. Sul suo capo, ignaro e dimesso, pende un’accusa assurda scovata niente di meno che tra le pagine ‘dimenticate’ del codice penale che ha portato alla luce l’articolo 603 che arriva direttamente dal codice Rocco fascista. Un’accusa eufemistica definita come “sottomettere una persona al proprio potere, al fine di ridurla a uno stato di sottomissione psicologico e fisico”.
Non ci sono precedenti e nemmeno casi a posteriori: Braibanti è stata l’unica persona ad essere condannata per tale crimine. Nel frattempo Ettore viene letteralmente rapito dalla famiglia, da sua madre (Anna Caterina Antonacci), la stessa che ha fatto arrestare Aldo, donna patetica dai sentimenti cattolicissimi la cui missione è quella di “guarire” il figlio, tanto da spingerlo a strazianti torture e pratiche disumane all’interno di un manicomio che prometteva di “guarire dall’omosessualità”.
Nel corso dell’opera c’è l’ingresso di due figure chiave della storia, quelle che definirei “modernamente progressiste”, il lato della medaglia civile di un’Italia che faticava – e fatica ancora oggi – nel riconoscere il diritto ad amare. La prima figura è Ennio Scribani (Elio Germano), giornalista che si rivelerà un volto amico per Braibanti durante il processo. Sarà lui che, armato di macchina da scrivere, cercherà di aiutare il poeta arrestato ingiustamente. Ennio è spalleggiato in questa difficile missione dalla cugina Graziella (Sara Serraiocco), fervente attivista del movimento d’opinione pro Braibanti, anche lei farà di tutto per non piegarsi al volere di quella società bigotta e repressa.
Un grande e maestoso lavoro collettivo
La sceneggiatura scritta da Amelio con Edoardo Petti e Federico Fava fa un lavoro enorme nello sviscerare questo vergognoso capitolo della storia politica e sociale italiana, dipingendo un ritratto elegante, ma straziante delle crudeltà che gli uomini omosessuali hanno affrontato all’epoca. È un’indagine nei meandri di un paese che – illusoriamente – stava vivendo il periodo più alto della liberazione sessuale, ma che parallelamente era prono al linciaggio degli intellettuali omosessuali e antifascisti, Pasolini ne è stato una delle vittime più atroci e brutali.
La narrazione de Il Signore delle Formiche non avrebbe mai potuto reggere da sola un lavoro di questa portata se non fosse stata sostenuta dalle interpretazioni maestre dei suoi interpreti. Un cast che che ha saputo dare vita ai personaggi. Luigi Lo Cascio è uno stoico Aldo Braibanti, una potenza silenziosa e penetrante; la sua è stata una prova attoriale mostruosa, una delle sue migliori prestazioni in assoluto che confermano quanto sia un talento di rara bellezza nel cinema italiano.
Leonardo Maltese è stata una scoperta, capace di tenere testa a mostri sacri del cinema; la scena dell’interrogatorio del giovane Ettore è vibrante e intensa, fa apparire il giovane fragile e determinato, spogliato della sua dignità da un paese che pretende di “guarire” con l’elettroshock chi non si conforma a quella che loro reputano la “normalità”. Una scena raccontata attraverso un lungo piano sequenza da brividi.
Elio Germano si conferma attore eccelso con una prestazione nobile e superlativa nei panni di un giovane giornalista pensieroso e appassionato de L’Unità che lotta per fare luce sul trattamento indecente e inumano riservato a Braibanti, cercando nel partito, nell’informazione e nella coscienza l’opportunità di invertire quel verdetto del tribunale che sembra già scritto.
Meritevole è senza dubbio la prestazione di Sara Serraiocco che oggi non possiamo considerare più tra i ‘nuovi talenti’. Un’attrice scavata che, ancora una volta, ha mostrato il carisma e la versatilità nel portare sul grande schermo l’impegno delle ragazze del ‘68 unite nei movimenti politici e nei collettivi per alimentare il dibattito culturale e politico della lotta per una giusta causa; la sua è un’energia travolgente che si adatta in modo impeccabile alla modernità ribelle del suo personaggio.
Il film di Gianni Amelio non è perfetto, ma quale film lo è? Ne Il Signore delle Formiche ci sono tanti spunti ancora da sviscerare. Ma è un’opera coraggiosamente potente e dolente. Ha il grande merito di restituirci la figura ‘dimenticata’ di Aldo Braibanti e ricordarci lo schifoso linciaggio giudiziario, mediatico, culturale e morale cui fu sottoposto da persona omosessuale, da artista, da partigiano, da intellettuale, da ateo. Un capro espiatorio perfetto per un paese in balìa di un fascismo ancora non scardinato, di una borghesia patriarcale e tradizionalista che contava sull’appoggio del clero e della stampa.
Il Signore delle Formiche è viscerale e sofisticato, fonde con delicatezza e arguzia elementi di storia, mélo, poesia e musica, raccontando con dignità una vicenda vergognosa, mostrandoci un’Italia che poi non è cambiata così tanto da quell’aula di tribunale giudicante e accusatoria, incapace di accettare la “diversità” e attaccarsi ad una loro presunta “normalità”.
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