Parasite è un film del 2019 di Bong Joon-Ho, vincitore della Palma D’Oro di Cannes del 2019 e candidato al miglior film agli Academy Awards 2020, nonchè vincitore del Miglior Film Straniero ai Golden Globe.
Ritrovarsi a vivere a discapito degli altri. Come termiti cacciatrici-raccoglitrici, in minuscoli alcova ricavati all’interno di una matrice grigia, erosa dall’acqua delle piogge tropicali. Laddove le formiche e le api, invece, possiedono una rigida suddivisione dei compiti, certi standard igienici, gli unici mammiferi ad avere comportamento colonico sono gli eterocefali glabri. Una regina, grassa e ben pasciuta, e svariate decine di operai e operaie che scavano tunnel nel terreno arido al suo esplicito servizio. Si tratta di bestiole piuttosto longeve: circa una ventina d’anni, che per un roditore è un caso più unico che raro. Dunque, laddove per gli insetti la chiave per il successo è da ricercarsi nell’organizzazione paramilitare, per gli eterocefali glabri…dov’è?
La fortuna.
Per una non ancor ben compresa mutazione genetica, gli eterocefali glabri non provano dolore (qui fonte) – non esiste Sostanza P, il neurotrasmettitore della sofferenza, nel loro corpo – e sono praticamente immuni ad ogni tipo di neoplasia (link). Dei privilegiati del mondo animale che, però, non hanno mai ambito alle stelle, preferendo rintanarsi in buche sottoterra. Perdendo gli occhi.
Parasite, film di Boong Joon-Ho non parla di roditori, ma delle loro controparti umane.
La famiglia Kim, composta da madre, padre, figlio e figlia, vive in un seminterrato sporco e la loro principale rendita è piegare – male – cartoni delle pizze assieme al sussidio di disoccupazione. Al pari degli eterocefali glabri, hanno accettato la loro condizione – non ne soffrono più – ma, allo stesso tempo, ancora mirano alle stelle. Un amico, Min-hyuk, di Ki-woo (il figlio maschio) offre a quest’ultimo la possibilità di sostituirlo come tutore di inglese alla giovane Da-Hye Park, rampolla della ricchissima famiglia Park.
La madre è, come dire, una creatura semplice.
Grassa e ben in arnese come l’ape regina.
Da quel momento, l’avventura della famiglia Kim si intreccia con quella dei Park, che possiedono una splendida villa in centro, una domestica tuttofare, ed un autista. Nonché un altro figlio, Da-Song, sì iperattivo ma di certo non con l’ADHD come la sua sciocca – semplice – madre, Choi, si ostina a sostenere. Dunque: prima Ki-Woo, poi la sorella Ki-jeong che diviene insegnante di arteterapia a Da-Song; successivamente il signor Kim, Ki-taek, diviene fidato autista del grande patriarca Park. Infine, fra sofisticazioni più o meno credibili, anche la fidatissima governante viene scalzata dalla furba Chung Sook che accusa la sua illustre precedente Moon-gwang di essere affetta da tubercolosi.
Tutto sembra scivolare liscio.
I soldi entrano: si può far shopping, riparare il cesso, e continuare a fissare la strana pietra regalata da Min-hyuk alla famiglia.
Eppure, i guai sono dietro l’angolo: durante la temporanea assenza dei Park e sotto un tremendo temporale, e, dunque, durante i gozzovigli dei Kim nel lussuoso salotto di quest’ultimi, si presenta in casa, sporca, scarmigliata, la ex governante Moon-gwang, asserendo di aver dimenticato qualcosa. Cosa?
Ci sono più persone di quanto sembri in quella casa: e, come l’intruso in Sunshine di Danny Boyle, c’è qualcun altro che consuma ossigeno nella ricca villa.
Parasite si snoda caotico fra le pieghe delle vite infelici dei Kim e di Moon-gwang e Geun-Sae – vite in cui c’è ancora spazio per l’amore, forse, che ancora non è stato obliato o venduto per via della povertà. In Parasite la distinzione fra regine e operai è più netta che mai, e, soprattutto, senza speranza di essere colmata.
L’ascensore sociale si dice sia completamente bloccato, nel mondo occidentale. La Corea del Sud ha evidentemente fatto suo questo meccanismo – in cui, chi nasce nella polvere, non potrà mai ambire alle stelle. Il crudo e palpabile realismo del cattivo odore dei Kim – il naso tappato del signor Park di fronte alla morte di una giovane – sintetizza come tale baratro sia impossibile da colmare con un ponte, che sia pur la parodia di una corda tibetana: si può fingere, per un po’, di essere delle grasse regine; ingozzarsi di pappa reale – vino costoso e stuzzichini goduriosi – ma l’epigenetica verrà sempre e comunque a bussare alla porta. Verrà sotto forma di un cappello indiano di piume – gli ultimi fra gli ultimi in una terra che un tempo era la loro – in mezzo a tanti ricchi capobranco che farebbero di te, povero operaio, un sol boccone su una luculliana tavola imbandita.
Di fronte al baratro sociale neanche la morte conta più: neanche la sofferenza, perché la morte di un bambino ricco, per l’ennesima volta, è più importante di quella di un povero. L’essenza umana, l’indipendenza, la libertà, si perdono, si nascondono, si obliano, si sporcano di feci, nel bunker di Geun-Sae prima e di Ki-taek poi – nelle lampadine illuminate da segnali SOS, nei sogni irrealizzati del menomato Ki-Woo.
Cosa ci lascia, dunque, il grande lavoro di Joon-Ho? Una matrice neorealista europea, lontana dagli eccessi tipici dei film coreani – ma la cui componente splatter/pulp è sempre presente e sempre apprezzabile – che, a mio modesto parere, farà scuola nel film socialmente impegnato a venire.
Perché di Parasite non ci libereremo facilmente: la costruzione attenta e mosaicistica della storia, l’incastro fatalista dei pezzi, acuminati, contro i Kim e contro i Park, uniti, forse, solo dal dolore della perdita – ma un dolore che ha un colore differente, una stazza differente, una doratura di una qualità diversa; a voi scegliere quella meno di bigiotteria – sarà il punto di riferimento di tantissimi cineasti moderni. Perché l’altro grandissimo pregio di Parasite è stato fondere “nicchia” e mainstream: colorato, divertente, mai silenzioso – i Kim e i Park parlano continuamente, si riesce ad immaginarne le azioni quotidiane anche dopo la loro morte – riccamente musicato, di facile fruibilità eppure impegnato: Parasite, dalla lontana Corea, ha insegnato ad europei e hollywoodiani come colmare almeno un baratro – quello di cinema supposto intelligente e cinema per stupidi. O per poveri e ricchi.
Perché Parasite è il più grande successo di sempre di un film vincitore della Palma D’Oro, segno che anche questa volta la giuria di Cannes ha colto nel segno: sotto la patina di tragicommedia si nasconde una grande allegoria della società moderna, che, per la prima volta dopo la Rivoluzione Industriale, torna ad assomigliare alla monarchica società degli Eterocefali Glabri.
Dunque: onore ai Kim, perché hanno tentato – seppur fallendo – di raggiungere la calda erba della savana e hanno coltivato la speranza di volare alle stelle.
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