Direttamente dalla Festa del Cinema di Roma, Rapiniamo il Duce ora arriva anche nelle vostre case. È il nuovo film diretto e sceneggiato da Renato De Maria, Federico Gnesini e Valentina Strada. Disponibile su Netflix a partire dal 26 ottobre.
Il film ci porta in una Milano tra le macerie, nel 1945. Isola (Pietro Castellitto) è un contrabbandiere di armi che sbarca il lunario. Né dalla parte dei fascisti, né da quella della Resistenza, si ingegna per fare soldi, non farsi beccare e sopravvivere: sguizza via da situazioni pericolosissime un po’ per scaltrezza, un po’ per fortuna. Si vanta di essere un solitario, ma è circondato da un esperto di tiratori indurito dal vivere Marcello (Tommaso Ragno) e dal docile ma altrettanto intelligente Amedeo (Luigi Fedele).
Come se le sue attività di affarista e mercante di guerra non lo tenessero sul filo del rasoio, Isola intrattiene una relazione più o meno segreta con Yvonne (Matilda De Angelis), l’amante ufficiale del gerarca Borsalino (Filippo Timi). Yvonne è una donna costretta ad una relazione abusiva, Borsalino ne è ossessionato e lei non può sfuggire dai suoi ricatti fascisti. Riuscirà il nostro eroe Isola a salvare la principessa Yvonne dalla prigionia del cattivissimo Borsalino? Sì, prima però bisogna rubare il leggendario tesoro di Benito Mussolini così da avere abbastanza sostentamento e farsi una nuova vita insieme all’estero.
Il tempo stringe e il tesoro rischia di scappare in Svizzera insieme a Benito Mussolini, c’è bisogno di un piano e di una squadra. Qui entrano in gioco Molotov (Alberto Astorri) e Denis Fabbri (Marcello Macchia detto Maccio Capatonda).
Un grosso fraintendimento colpisce il film, recepito dal grande pubblico come una commedia. Complici la presenza di Maccio Capatonda – geniali le recenti gag-pubblicitarie per promuovere il lungometraggio – e il soggetto trattato, lo spettatore cerca la risata salvo poi scoprire, fin dalla prima sequenza, di ritrovarsi dinnanzi a un film d’azione, a tratti parodistico e con un’esibizione disinvolta della violenza. Ma è pur sempre un film d’azione, non una commedia.
Un chiarimento necessario questo, non solo perché cambia tutto l’impianto della scrittura ma perché cambia tutto il senso dello scrivere. Pensiamo a due grandi classici come Vogliamo Vivere (Ernst Lubitsch, 1942) o I due Marescialli (Sergio Corbucci, 1961), due film di nazionalità diversa che giocano con lo stesso mazzo di carte e in mano hanno entrambi un jolly. Scherzano con la Storia per poi diventare storia del cinema. Ma nelle grandi commedie delle storie, c’è sempre una forte carica satirica ed eversiva nei confronti del potentato di turno. Rapiniamo il Duce invece guarda verso altre stelle e come riferimenti cinematografici si rifà più a Ocean’s Eleven (Steven Soderbergh, 2001), Hot Fuzz (Edgar Wright, 2007) e allo stile di Quentin Tarantino ma non alla sua poetica.
Rapiniamo il Duce è un heist movies a tutti gli effetti e riprende quel tipo di scrittura e di suddivisione in atti: creazione della banda, piano per accalappiarsi il bottino, piano per la fuga. Non aspettatevi gag tra camerati, al contrario, in quelli che potrebbero essere momenti di fortissima satira e risata il film cerca di costruire una tensione, quasi da monito: su certe cose c’è poco da scherzare. E si provano brividi di angoscia dinnanzi alla dichiarazione di Benito Mussolini a cui la coppia amorosa proibita Isola e Yvonne assistono nella sala di un cinegiornale; si provano brividi di speranza dinnanzi alla voce ispirata di Sandro Pertini alla radio: “[..] ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.
“Questa è Storia vera. Questa storia, quasi”, mette subito in chiaro il film nella didascalia iniziale. A Rapiniamo il Duce non può essere chiesta una fedeltà storica: il linguaggio è fumettistico e anti-realistico, i personaggi hanno bende sugli occhi, sfrecciano su automobili, si spostano a colpi di mitra, si ubriacano e pippano nei momenti di tensione, spaccano bottiglie in testa al cattivone di turno e preparano ordigni esplosivi. Mancano solo le onomatopeiche nuvolette: “pum!” e “argh”.
Il film riprende tanto dal fumetto, cosa tra l’altro rimarcata con veri e propri inserti animati inscrivendo il film in quella che è: «una tendenza di “fumettizzazione” del cinema italiano degli ultimi sette anni, dal successo di Lo chiamavano Jeeg Robot in poi». L’intento di Rapiniamo il Duce non è far riflettere, non è fare satira ma è quello di intrattenere lo spettatore.
Per intrattenerlo con un film che non vuole né prendersi troppo sul serio né essere commedia fino in fondo, c’è bisogno del giusto immaginario. I problemi di scrittura e di recitazione del film conseguono al grande problema di fondo che è concettuale: prendere l’immaginario della storia, svuotarlo di senso e non costruire nuovi significati e nuovi immaginari propri. Per un film che vuole distanziarsi dal realismo e farsi astrazione, l’immaginario è fondamentale.
Qui la Storia è un pretesto prima ancora che un contesto. E la storiella, ormai trasfigurata nella leggenda, del tesoro di Benito Mussolini è un po’ come quella di Alì Babà e i quaranta ladroni o una puntata di Duck Tales in cui Paperon de’ Paperoni insieme ai suoi nipotini va alla ricerca di un tesoro ai confini del mondo conosciuto. Il tesoro è un mero pretesto narrativo per innescare il racconto, così come la scelta del periodo storico che è molto facile da ricondurre ad archetipi di eroi e di antieroi, di bene e di male assoluti.
E nel male assoluto ci sono i fascisti che sono rappresentati come borghesi dannunziani simpatizzanti del regime e ne è un esempio la diva decadente (Isabella Ferrari) che richiama il più celebre personaggio di Norma Desmond in Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950) o come gangster che hanno conquistato una donna con il potere e sono pronti ad uccidere chiunque provi a toccargliela.
In conclusione, c’è da dire che alla carenza di profondità e soprattutto alla carenza contenutistica si contrappongono un buona ricostruzione scenografica e una buona scelta di costumi. Tecnicismi e produzione di certo non mancano al film, anzi, forse sono proprio loro i veri e unici protagonisti. Un’occasione sprecata che non si traduce necessariamente in un film orribile e non merita di certo l’onta di gran parte della stampa.
Dopotutto, in una sequenza Maccio Capatonda deve spacciarsi per guardia fascista che trasporta un detenuto, comincia a provare il discorso allo specchio: “Prigioniero. Pietro Lamberti…” si ferma, è impacciato e troppo serioso. Allora si fa una striscia di coca e riprova, il discorso esce meglio; se ne fa un’altra ed è ancora più credibile. Ora assomiglia proprio ad un fascista. La satira, sotto sotto, comunque c’è.
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