Tutti abbiamo sentito parlare di Osho – quel nome orientaleggiante, quel guru gentile con la lunga barba griglia, gli occhi gentili e le mani giunte. Un uomo entrato nella mentalità popolare come dispensatore di pillole di saggezza, dal sapore un po’ asiatico, un mix di induismo variegato, shintoismo, confucianesimo, bah’ai, e Vangeli. Rispetto per gli altri, rispetto per se stessi, innocuità verso il mondo, ambientalismo, cultura, pensiero razionale – professionalità, ma anche fatturare, in un ateismo pressochè totale. La filosofia dell’umanità, unificante, totalizzante, d’ascesa: era ciò che proponeva l’uomo Rajneesh.
Osho, al secolo Bhagwan Shree Rajneesh, morì nel 1990. Protagonista è – piu o meno – del documentario Wild Wild Contry, di Chapman e Maclain Way.
Diviso in sei puntate, vede la storia dei Rajneeshi narrata da alcuni che la vissero e che ne furono protagonisti: Jane Stork (prima, Ma Shanti B) addetta stampa e tuttofare della comune, australiana; Philip Toelkes, arrembante avvocato losangelino che lascia tutto per abbracciare la comune di Osho, e che diventerà sindaco di Rajneeshpuram; Laura Eisen, fra gli altri Rajneesh; e, infine, vari e variegati abitanti di Antelope, la cittadina oregoniana invasa dai di rosso vestiti. Su tutti, però, troneggia l’imperatrice autoproclamatasi (e a ragione) dell’Oregon e dell’India: Ma Ananda Sheela.
Il lavoro, che vede fra i produttori i fratelli Duplass, già noti per il documentario Asperger, siamo noi, non è manicheo – il che, già crea una sensazione di suspence nel fruitore, riguardo il quale viene assunto, invece, che sia abbastanza interessato al macabro, allo scabroso, all’oscuro. Così è infatti Wild Wild Contry: lesina le informazioni ruvide e torbide, regala abbondanti primi piani su faccioni d’America degli abitanti di Antelope, ma lascia anche che siano i protagonisti a parlare – compresi i pubblici procuratori e i giudici che si occuparono della travagliata vicenda giudiziaria di Rajneeshpuram.
Nel 1981, i sanyassin, seguaci di Bhagwan/Osho, individuarono, su indicazione di Ma Ananda Sheela, un enorme ranch in Oregon. C’era spazio per fiumi da bloccare con dighe, per valli da arare, per aeroporti da costruire – e per fortificazioni da rafforzare. Un migliaio di persone, circa, in perenne aumento. Il ranch cadeva, però, proprio nel territorio della cittadina di Antelope, composta da neanche un centinaio di persone (e, va detto, tutti pensionati un po’ bigotti). Che, alla vista dell’invasione, non l’hanno presa proprio bene. Sesso libero, spinelli, stravaganza, musica, risate, armi, soldi, aerei, Rolls Royce – un mondo sconosciuto si era impadronito, ferocemente, di Antelope. Che, per quattro anni, è sostanzialmente stata Rajneeshpuram.
Un prezioso compendio di documenti d’epoca, una ricerca spaventosa fra telegiornali e videotape privati, quella dietro Wild Wild Country. Gracchianti, sconvolgenti, corpi nudi in riti orgastici, mescolati a laboratori biotech sofisticati e a costosi gioielli – la filosofia di Osho non rifiutava il progresso, il liberismo, ma, anzi, lo promulgava ed abbracciava. Una società di professionisti, quella fondata da Sheela e Osho: ingegneri, avvocati, medici, professionisti dell’informazione, imprenditori. La comune divenne milionaria. La cittadina di Antelope triste, povera, e grigia.
La visione di Wild Wild Country non è divisiva, lascia interessanti ma indifferenti. Si tratta di eventi passati da tempo, e profondamente ambigui; dare una visione d’insieme e il piu obbiettiva possibile era l’obbiettivo del documentario Netflix, ed è stato centrato. È il racconto di vita di un’esperienza fantastica e miracolosa, quasi, quella vissuta dagli abitanti della comune; di un incubo senza precedenti nella placida, noiosa, abbioccata vita degli abitanti dell’Oregon che, per la prima volta nella storia dello stato dopo la cacciata degli Indiani e dei cattolici e dei mormoni a Salt Lake City, avevano qualche minoranza da odiare.
Eppure, Wild Wild Country, sebbene dovesse essere una biopic di Osho, in realtà, è quella di Sheela. Sheela, una donna che, sebbene profondamente ambigua, giganteggia anche di fronte al suo serafico e sorridente maestro, e le scelte di regia e montaggio non fanno che acuire questa sensazione: una donna, minuta, ma monumentale, che ha creato un impero, ha scontato una pena chissà se giusta, e che ha ricostruito la propria esistenza lontanissimo sia da casa sua – l’India – che da Rajneeshpuram. Una donna dall’oratoria munifica, dagli occhi svegli ed intelligenti, e, appunto, la maggior parte dello screenplay è a lei dedicato. Osho cos’è, in confronto?
L’assenza di Osho, in un documentario su Osho: Rajneeshpuram è Ma Ananda Sheela
Ecco, se c’è una qualsivoglia parzialità nella rappresentazione giornalistica della storia della comune dell’Oregon, è proprio imperniata sul tratteggiare la figura del guru, della guida spirituale. Eccezionale oratore, rockstar, ma facilmente manipolabile, amante delle scene grandiose, teatrale, rancoroso. Sheela, altra faccia della medaglia: grande businesswoman, indipendente, pronta a scelte terribili – compresa la ritorsione a base di Salmonella nei confronti degli Oregoniani.
Le bieche e sbieche inquadrature riservate al sostituto procuratore che guidò le investigazioni per la causa di favoreggiamento dell’immigrazione, Robert Weaver, forse, un po’, rivelano, ad un occhio maligno, le reali curiosità indagatorie degli indagatori. La politica ed i casi giudiziari sono noiosi, i melodrammatici videoclip di addio alla comune, invece, smuovono gli animi.
Il totale carisma dei protagonisti intervistati in Wild Wild Country, in sostanza, è tutto spostato a favore dei sanyassin: fanatici, forse? Il documentario non ce lo dice. Invasati? Chissà. Vivevano per un ideale? Sicuramente. Quanto c’è di marcio che non ci viene raccontato? Tantissimo. Quanti stupri, quante violenze, quanti omicidi, quanti orrori, quanti tentati attacchi terroristici, sono stati omessi? Infiniti.
E dov’era Osho mentre Sheela e gli altri si battevano per la libertà di Rajneeshpuram? Era in silenzio. Ed il suo silenzio è ben palpabile in Wild Wild Country, perchè è Sheela, nuda sui tabloid inglesi, è Sheela, rutilante di rosso negli scontri tv in Oregon, ad essere la vera protagonista dell’esperimento sociale della comune.
La storia si ripete, e la ragione umana si confonde nel ricordo
Wild Wild Country è, dunque, un documentario sugli esseri umani. Sull’unica comune – si ricordi Georgetown – che non è finita in tragedia suicida di massa; non ebbero, a che si sa, outbreak di AIDS; erano straricchi, e non tentarono mai di fondare una vera e propria organizzazione terroristica. Erano esseri umani che, al pari degli apostoli, abbandonarono tutto e andarono a lui, a Osho, ma, in realtà, andarono a Sheela. Il tessuto visuale del documentario è sfaccettato come le ministorie che racconta, ed il lavoro svolto dal montatore Neil Meiklejohn è assolutamente impressionante e permette di rivivere un’epoca lontana ed un sogno lontano. Osho, coperto di fiori, morto a Poona di crepacuore, e Sheela, eterna sopravvissuta, che ha ricreato il suo piccolo paradiso in Svizzera.
Da Wild Wild Contry è poi nata Sanpa, la docuserie tutta italiana sul periodo di fondazione della comunità terapeutica di San Patrignano, una storia simile eppure diversa, ugualmente divisiva.
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