La potenza emotiva e simbolica del cinema vive in Roma Città Aperta: un vero punto di riferimento e di svolta della settima arte mondiale. Girato in segreto durante l’occupazione nazista in Italia, l’opera racconta realisticamente la resistenza clandestina
Prima delle mediocre e superficiali “commedie sexy”, l’Italia era la patria del cinema: tutto il mondo si ispirava alle pellicole dei registi nostrani. Posso dire, senza esagerazioni, che prima degli anni ’70 avevamo il monopolio del settore e il cinema italiano era considerato il migliore, il più ambizioso, dove il neorealismo divenne un genere che tutti i più grandi volevano imitare. Addirittura, Otto Preminger una volta disse che «la storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta». Mai parole furono più giuste. Ma facciamo un salto indietro.
Vi è mai capitato di vedere un film degli anni Venti o Trenta? Il cinema a quel tempo non era reale, ma rappresentava mondi utopici. Voleva, in qualche modo, essere rassicurante: parlava di belle persone che vivevano una vita favolosa in appartamenti eleganti del centro. Questo fino alla seconda guerra mondiale. Ad un certo punto è come se ci fosse stato un bug cinematografico tra prima e dopo il 1939, che poi alla fine questo bug c’è stato veramente.
Le persone vedevano il mondo con un’altra prospettiva: non volevano essere rassicurate, ma comprese.
Ed è in questo contesto socio-culturale che i cineasti si sono fatti portavoce di una nuova urgenza collettiva, quell’urgenza che ha trovato l’Italia, o meglio, Roberto Rossellini come ground zero. La “macchina da sogno” del decennio precedente aveva lasciato il posto ad uno dei maggiori movimenti che ha fatto la storia della settima arte: il neorealismo. Ed è proprio a Roma Città Aperta che va annoverato il merito di aver iniziato una nuova tipologia di cinematografia, dando una nuova visione a chi la faceva e chi la vedeva. Insomma, l’opera di Rossellini rappresenta una sorta di big bang della settima arte.
L’arte del racconto
La guerra era appena finita quando Roberto Rossellini decise, con assoluta immediatezza, di far conoscere al mondo quell’Italia martoriata e devastata da un conflitto che si poteva evitare, che si doveva evitare. Così, nel 1945 uscì Roma Città Aperta, un film ambientato un paio di anni prima, mentre le autorità naziste cospiravano per annientare la resistenza della città. Non c’è discussione politica, ma un chiaro e dettagliato racconto morale di una condizione sociale. Che poi è questo ciò che accade quando la maestria artigianale incontra la passione ardente.
Roma Città Aperta è un notevole film-documentario che, per dare vita alle immagini, fu girato nei corridoi, negli hotel, nelle strade, nelle periferie. I protagonisti furono portati in mezzo a degli scenari popolati da gente comune, confondendo e mascherando con efficace maestria le linee di ciò che era cinema e cosa era la realtà. Rossellini ebbe la capacità e l’intelligenza di cambiare la faccia del cinema: raccontò uno spaccato sociale, mescolò perfettamente il realismo con il melodramma, regalò al pubblico un’opera doverosa, manifestò una verità rilevante e rivelante.
L’ordine sociale crollato e un Paese sull’orlo del cambiamento fanno da collante ad una narrazione drammatica, con un tocco di humor, che mette al centro Giorgio (Marcello Pagliero), un ingegnere e combattente della resistenza in fuga; Francesco, un tipografo antifascista (Francesco Grandjacquet); un sacerdote, Don Pietro Pellegrini (Aldo Fabrizi), che assiste la causa, il cui personaggio è ispirato all’omonimo prete trucidato alle Fosse Ardeatine dai nazifascisti il 24 marzo 1944.
E poi c’è una coraggiosa donna incinta, Pina (Anna Magnani), vedova e madre di Marcello, che ha intenzione di sposare Francesco, dopo aver perso il suo primo marito nella macchina da guerra fascista. E’ lei, la vera Teresa Gullace, uccisa da un ufficiale tedesco perché aveva “osato” portare via un tozzo di pane al marito “rastrellato” e condotto nella caserma di Viale Giulio Cesare.
Ed è proprio l’interpretazione maestra di Anna Magnani che rende la pellicola ancora più bella di quanto non lo sia di suo. La sua vivacità, il suo temperamento, la sua passione e quelle borse sotto gli occhi, che sanno di vita vissuta, la rendono capace di brillare naturalmente. Negli anni siamo stati testimoni di altri, importanti, capolavori della Magnani, ma questo rimane il suo primo ed indimenticabile, quello che fece conoscere al mondo il suo immenso talento artistico.
Momento di miracolosa bellezza
Le scelte estetiche e stilistiche di Rossellini regalano al pubblico dei momenti artistici meravigliosi, che il cinema difficilmente ha eguagliato in 75 anni. Se penso a Roma Città Aperta e chiudo gli occhi, non posso non avere davanti una delle scene più belle ed iconiche della settima arte, che non è altro che un ultimo atto d’amore, una richiesta di libertà. Una sequenza che ha cambiato la vita di molti, soprattutto quello di Anna Magnani.
Hanno preso suo marito. Corre lei. Non sente, non conosce, non vede il pericolo. È ignara. È incosciente. È passionaria. Ha paura, ma corre. Con quegli occhi che tutto dicono e quella dignità di una madre che non vuole arrendersi grida: “Francesco, Francesco”, con più anima che voce. Parte un colpo. È uno sparo. Pina cade a terra. Il suo corpo è inerme. La strada si svuota. Don Pietro la prende in braccio. Una pietà struggente. La raffigurazione cinematografica di una delle opere rinascimentali più suggestive.
«Bisogna volerlo. Sono una persona semplice, io. Non le so spiegare alcune cose, non sono bravo con le parole. Ma Pina, quello che stiamo facendo è giusto. Non dobbiamo aver paura, né oggi, né nell’avvenire. E’ la strada giusta da percorrere. Forse sarà lunga la strada per la libertà. Ma è quello che deve essere. Deve essere questo. E sarà un mondo migliore per noi, per Marcello, e per il bambino che aspettiamo. Per questo non devi aver paura mai Pina, mai, qualunque cosa succeda».
Roma Città Aperta è un film monumentale
È ricco di significato storico e di tecniche cinematografiche. Non solo ha il merito di aver creato il neorealismo italiano, ma anche quello di aver offerto un tributo agli uomini e alle donne che hanno perso la vita durante l’occupazione tedesca. Roma Città Aperta è un’opera realistica nel ritratto di queste persone. Non ha un lieto fine. No.
D’altronde era impossibile chiedere a un cineasta sensibile come Rossellini di raccontare una storia a lieto fine, nell’Italia pre 1945, che di lieto fine aveva ben poco. E per questo motivo è solidale con il coraggio del popolo italiano che ha difeso il proprio Paese e le proprie convinzioni politiche, ma non rifugge da ciò che è realmente accaduto.
Dunque, Roma Città Aperta è il simbolo di un’Italia liberata, di un Paese che voleva ripartire. E’ il ritratto più crudo e violento di una città che deve fare i conti con le macerie della seconda guerra mondiale, di un conflitto che, ancora oggi, a settantacinque anni di distanza, si rivela così vicino a noi. E’ la storia, drammaticamente vera, di personaggi realmente vissuti durante un periodo storico mai così tragico nella sua essenza, rappresentati in una maniera tangibile nella finzione cinematografica.
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