Dopo le prime due stagioni che strizzavano l’occhio ad un approccio più da soap-opera, la quarta stagione di Station 19 prende il volo ed affronta temi importanti. Il Covid-19 ed il Black Lives Matter sono al centro del nuovo capitolo della serie tv di Shondaland.
Il tredicesimo episodio della quattordicesima stagione di Grey’s Anatomy è stata la miccia che ha fatto esplodere l’idea di dare una storia a quei vigili del fuoco che avevano fatto irruzione al Grace Hospital. Da qui è partito lo spin-off del medical drama che, in qualche modo, ha iniziato il fenomeno Shonda Rhimes, capace di polarizzare l’attenzione di un pubblico sempre più vasto. Penso a Private Practice, Scandal, Le regole del delitto perfetto, Bridgerton e, adesso, Station 19.
Quelle che da qualche anno a questa parte mette in cantiere Shonda è una lista talmente ampia di produzioni che la Rhimes si è trasformata da showrunner a imprenditrice, in grado di diversificare i suoi lavori, di moltiplicare le possibilità espressive e comunicative, di possedere una visione della serialità a tutto tondo, di coniugare un mix di generi dell’intrattenimento, suggellando di fatto una certa fiducia con il pubblico.
Il tocco di Shonda Rhimes è unico, perché catapulta lo spettatore all’interno dello spettacolo come riescono ben pochi. Un trasporto totale che ritroviamo anche in Station 19, lo spin-off di Grey’s Anatomy partito dalla scelta del chirurgo Ben Warren (Jason George) di lasciare il famoso ospedale di Seattle e diventare un vigile del fuoco, nonché paramedico della stessa caserma.
Nonostante lo scenario e il contesto siano diversi, Station 19 mantiene le molteplici caratteristiche che hanno portato al successo il medical drama per eccellenza: azione, dramma, temi sociali, love story, crolli emotivi e chi più ne ha più ne metta. Ed è in questo sfondo che troviamo i protagonisti della caserma numero 19.
Se le prime due stagioni risultano, a tratti, più melensi, come se fosse una sorta di presentazione generale dello spettacolo, dove abbiamo assistito a scene inflazionatissime come la storia segreta tra colleghi, il triangolo amoroso, il padre malato e la figlia carica di responsabilità. Dalla terza stagione assistiamo ad un’autentica virata di boa che lancia una brillantissima quarta stagione che, senza dubbio, è la migliore.
Infatti, la quarta stagione di Station 19 abbandona (quasi) definitivamente la stampella Grey’s Anatomy per iniziare a camminare da sola. Ad un certo punto non pensiamo più di attendere con intrepidazione qualche personaggio del medical drama, siamo concentrati sulle vicende private e professionali dei vigili del fuoco che, via via, si fanno sempre più interessanti.
Il capitano Maya Bishop (Danielle Savre) deve guidare la squadra nel pieno di una pandemia che ha sconvolto non solo Seattle, ma tutto il mondo. Con la sua solita grinta e il sostegno della compagna Carina (Stefania Spampinato), ostetrica presso il Grace Hospital, riesce a coniugare, non senza qualche difficoltà, vita privata e professionale. L’amore per la dottoressa italiana riesce a liberarla da un passato che la opprime e condiziona le sue scelte.
Ma Maya può contare anche sull’amicizia ritrovata di Andy Herrera (Jaina Lee Ortiz) che deve convivere con il ritorno di una madre che credeva morta e gestire il matrimonio con Robert Sullivan (Boris Kodjoe), ex comandate dei vigili del fuoco, allontanato dal suo ruolo per aver rubato medicinali ed essere andato in overdose durante l’orario di lavoro.
Nella quarta stagione, ovviamente, ritroviamo Ben Warren, l’anello di congiunzione tra Grey’s Anatomy e Station 19, grazie anche al suo matrimonio con Miranda Bailey (Chandra Wilson); Dean Miller (Okieriete Onaodowan), alle prese con la sua nuova vita da padre, con il sostegno al movimento Black Lives Matter e con l’amore nascosto per la collega Vic Hughes (Barrett Doss), quest’ultima intenta nel riuscire a sistemare la sua vita privata.
Ma Vic può contare su un amico speciale, Travis Montgomery (Jay Hayden), ancora legato al defunto marito e che non riesce a lasciarsi andare ad una relazione con Emmett Dixon (Lachlan Buchanan), figlio dell’odioso comandante della polizia Albert Dixon (Pat Healy). Nella squadra è immancabile la presenza di Jack Gibson (Grey Damon), concentrato nel prendersi cura della famiglia che è riuscito a strappare ad un uomo violento nella terza stagione.
Senza fare spoiler, posso dire con fermezza che la quarta stagione di Station 19 è ricolma di temi sociali e culturali di enorme importanza, soprattutto in questo periodo storico.
Parlo del tema covid-19, trattato con estrema delicatezza, senza andare ad ingigantire o a drammatizzare la questione. Shonda lo ha raccontato nello stesso identico modo in cui noi lo abbiamo vissuto: ne ha fatto percepire la paura della morte; la preoccupazione per l’Italia, il primo paese occidentale che ha lanciato l’allarme; ed infine la speranza di guarire e tornare a sorridere in famiglia.
Inoltre, c’è il movimento LGBTQ, presente anche nei precedenti capitoli, dato che Shonda è bravissima nel raccontare con estrema naturalezza l’amore tra due persone dello stesso sesso. Lo abbiamo visto nelle passate stagioni con Travis, capace di vivere con disinvoltura le sue relazioni – come giusto che sia – e riuscire ad essere quello che è senza la paura di essere giudicato; scoprirà un segreto che cambierà le sue considerazioni sul padre, che non ha mai accettato del tutto un figlio gay.
Nella quarta stagione continuiamo ad essere testimoni di un’altra storia d’amore, questa volta al femminile, nata nella terza e protagonista nel nuovo capitolo di Station 19. Maya e Carina sono una delle coppie meglio assortite viste in una serie tv, dove si destreggiano tra pandemia, lutti inaspettati e un visto in scadenza. Questo è anche merito dell’interpretazione di Danielle Savre e Stefania Spampinato, capaci di dare vita e credibilità ai loro personaggi, dall’inizio alla fine.
Infine, parlo della forte presenza del movimento Black Lives Matter, dove per gran parte degli episodi è marcata l’attenzione che Shoda ripone sulla discriminazione razziale, incentrando lo sguardo sulla battaglia alla violenza da parte di coloro che dovrebbero rappresentare la legge; sulla gogna mediatica e sulla mentalità discriminatoria; sulla lotta all’indifferenza e all’accettazione della propria cultura.
Ancora una volta, Shonda Rhimes è bravissima a raccontare tutti questi temi in una serie televisiva. A far incontrare, con intelligenza, finzione e realtà e a narrare le vite dei protagonisti all’interno di uno sfondo sociale permeato da un razzismo prima latente e poi manifesto. Gioca abilmente nel denunciare gli stereotipi e riducendo chi si crede forte a meri soggetti caricaturali.
Adesso non ci resta che attendere la quinta stagione e vedere l’evoluzione che prenderanno le storie dei vigili del fuoco di Station 19.
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