Calma. Questa è la parola che userei per descrivere Utama – Le Terre Dimenticate, il film del regista boliviano Alejandro Loayza Grisi. Utama è la storia del vecchio che non vuole lasciare spazio al nuovo, e strizza l’occhio alla globalizzazione e ai problemi dovuti al riscaldamento del nostro pianeta.
Tutto nasce dall’assenza della pioggia che ormai perdura da mesi, nelle vaste Highland boliviane. Il pastore di lama Quechua Virginio vive in una capanna sperduta con la moglie Sisa, che si occupa della casa e di andare a prendere l’acqua al villaggio, a piedi e sotto il sole cocente: la siccità che ha colpito la zona è così grave che l’unico luogo dove la si può raccogliere è il fiumiciattolo appena fuori dalla cittadina, il che significa aggiungere ulteriori chilometri alla camminata. La loro è una vita semplice, fatta di gesti ripetitivi e quasi metodici.
La loro quiete viene scossa dall’arrivo del nipote Clever, arrivato dalla città per convincere i nonni a seguirlo e ad abbandonare quel luogo ormai ridotto ai limiti dell’inospitalità. Tuttavia, fra il nipote e il nonno ci sono dei dissapori, dovuti anche alla completa opposizione di caratteri dei due.
Clever, per Virginio, è solo un illokalla, uno stupido, un buono a nulla. Il nipote, da piccolo, veniva mandato dai nonni per punizione, ed è per questo che è convinto che sia lì solo perché suo padre (il figlio di Virginio e Sisa) ha bisogno di qualcosa o perché ha deciso di punire il figlio. Clever, invece, lo rassicura sul fatto che sia lì solo per dare una mano. Il ragazzo segue il nonno al pascolo, ed è lì che constata ciò che lo spettatore ha visto fin dall’inizio del film: Virginio sta male, sta molto male, e se non andrà in città per curarsi, probabilmente non sopravviverà a lungo.
Il nuovo e il vecchio mondo si scontrano quando si tratta di sopravvivenza: metà del villaggio vorrebbe seguire gli altri che già sono partiti per il nord, verso la città, mentre l’altra metà vuole restare lì, in quello che è ormai un deserto. Interessante il rituale che gli abitanti compiono sulla cima della montagna per provare a portare la pioggia: il sangue di un lama sacrificato sul posto, infatti, dovrebbe riuscire ad attirare le nuvole e placare così la siccità.
Il film è in lingua Quechua, l’antico dialetto derivante direttamente dagli antichi Inca, che abitavano quelle zone parecchi secoli fa. Lo spagnolo viene usato da Clever e da Sisa, raramente da Virginio, che parlando in dialetto Quechua tiene il nipote a distanza, alzando così una barriera linguistica quasi impenetrabile. Anche il linguaggio non verbale è importante, in Utama, soprattutto fra Sisa e Virginio: quest’ultimo le porta un sasso ogni giorno, di ritorno dal pascolo. È un gesto molto semplice, ma pieno d’effetto.
Importante è anche il dialogo silenzioso che Virginio ha con un condor: l’uccello, come afferma il vecchio pastore, “quando si sente inutile e capisce di non poter più volare vola fino alla cima della montagna, piega le ali, ritrae le zampe, vola in picchiata fino alle rocce e così muore”.
Virginio è il condor, che capisce di non poter più vivere come faceva un tempo, con la sua esistenza semplice e metodica; egli è un uomo di un’altra generazione, che per orgoglio non vuole lasciarsi andare al progresso del moderno, e non vuole nemmeno che la moglie lo faccia: si nota quando cerca sempre di essere un passo avanti al nipote mentre camminano, o quando lui insiste nel non volersi curare con le medicine (preferisce gettarle via).
Le scene di Utama sono caratterizzate dal silenzio quasi totale, alternato a suoni stridenti e a musiche tipiche della Bolivia e del Sudamerica. La fotografia è incredibile, questi enormi spazi aperti che si estendono a perdita d’occhio che cozzano con la minuscola capanna dove Sisa e Virginio vivono. Lampante è la vivacità di alcuni colori, come i fiocchetti fucsia che decorano le orecchie dei lama, che contrastano con l’ambiente circostante, dalle tinte spente e desaturate.
Utama – Le Terre Dimenticate è un film per coloro che hanno a cuore l’ambiente, è che sono sensibili ai cambiamenti climatici del nostro pianeta. È anche per coloro che sono nostalgici di tempi che ormai sono passati, lasciando spazio alla globalizzazione.
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