Bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte.
Frase attribuita a Gabriele D’Annunzio.
Ho raggiunto telefonicamente Francesco Patanè per farmi raccontare la sua personale esperienza sul set di Il cattivo poeta e del rapporto che ha costruito con Gabriele D’Annunzio.
La trama
Giovanni Comini, interpretato da uno strabiliante Francesco Patanè, è un giovane laureato che si occupa di politica, vive a Brescia, città in cui ha sede la Casa del Fascio, ed è un convinto sostenitore del Partito fascista appena promosso a federale, promozione che lui stesso definisce ‘un personale successo come un tassello per raggiungere qualcosa d’importante, in nome di un’Italia padrone del proprio destino’.
Nella primavera del 1936 viene convocato a Roma dal segretario Starace per ricevere un nuovo e alquanto delicato incarico: dovrà far sì che il poeta Gabriele D’Annunzio si fidi di lui in modo da spiarlo per conto del regime. Compito certo non facile quello di Giovanni, un ragazzo ingenuo e fiducioso, soprattutto se consideriamo che D’Annunzio era consapevole di essere spiato. Era ormai anziano, ma certo non stupido.
Quello che infatti mi ha colpito di Il cattivo poeta è stato vedere che Giovanni Comini non è stato surclassato dal ‘poeta sacro’ ma anzi si è rivelato una presenza importante, quasi indispensabile, nei suoi ultimi anni di vita.
Come ti sei preparato per il ruolo? Hai studiato molto o hai preferito piuttosto fare una sorta di tabula rasa?
Ho studiato molto. In generale mi piace conoscere il personaggio prima di affrontarlo, uno studio che però è piuttosto un insieme di processi diversi. C’è sicuramente il farsi attraversare dalle immagini, ho visto molti documentari sull’epoca proprio per capire il tipo di aria che si respirava e poi anche la prova costume che si è rivelata molto utile per iniziare a sentire il personaggio nel mio corpo e nella mia testa.
Ovviamente molto di quello che puoi fare lo fai già studiando approfonditamente la sceneggiatura. Quello che il personaggio dice e fa è in gran parte già lì quindi il gioco è metterselo addosso, poi ovviamente si scoprono anche altre cose che la sceneggiatura dice tra le righe o non dice.
Il film è ambientato in epoca fascista. Com’è stato viverla piuttosto che limitarsi a leggerne sui libri di scuola?
È stato interessante, perché effettivamente crediamo di saperne tanto su quell’epoca, ne sentiamo parlare quando siamo a scuola, abbiamo tante idee su quello che era quel periodo lì però entrarci dentro, calarsi in quell’atmosfera è stato strano. Un po’ perché se ti ci cali dentro un po’ devi dimenticarti quello che hai sempre saputo, del senno di poi.
Da una parte è un’epoca come un’altra, era molto più semplice per alcune cose e molto più complicata per altre. In un certo senso era molto più urgente agire, prendere una posizione. C’era la necessità di chiedersi da che parte stare. Era più facile abbracciare degli ideali senza farsi troppe domande, ora invece la corrente mi sembra molto più difficile da intuire. In generale ha rispecchiato quello che impari a conoscere sui libri di scuola.
Cosa ha significato per te lavorare al fianco di Sergio Castellitto?
Ero alla prima esperienza cinematografica e per me ha significato una bella conferma. Fino ad allora mi sono chiesto ogni giorno se potessi o meno fare questo mestiere. Quando mi sono trovato al fianco di un attore così affermato allora mi sono detto che ero nel posto giusto.
Mi descriveresti il rapporto che Francesco Patanè e Giovanni Comini hanno con D’Annunzio?
Il rapporto di Giovanni Comini con D’Annunzio è inizialmente un rapporto di distanza, di spia e di uomo spiato quindi quello che Comini fa è seguire le direttive di Starace. Ci si rapporta un po’ con la spocchia e la superficialità di un giovane di fronte ad un anziano, al di là che fosse un poeta di cui il Comini aveva letto poco peraltro.
Pian piano poi, un po’ per quello che D’Annunzio fa e dice, Giovanni inizia a guardarlo con occhi diversi, e inizia a mettere in discussione tutto quello in cui crede, anche i rapporti e le persone, grazie alla spontaneità e alla multiformità del rapporto che ha con questa persona a cui mai si sarebbe avvicinato se non per lavoro.
Giovanni finisce per incontrare questo amico, una persona che gli cambia la vita e che gli fa aprire gli occhi. Se ci pensi io e te facciamo due lavori che ci mettono in contatto con persone diverse che non avremmo mai incontrato se non per lavoro.
Per quanto riguarda il mio personale rapporto con D’Annunzio, pensavo ingenuamente che D’Annunzio fosse (come molti credono) il poeta fascista e quindi da una parte lo leggevo con gli occhi dell’attore e sentivo che ci fosse qualcosa di passionale, vitale, che mi faceva venir voglia di raccontare. Questo film mi ha permesso di rivalutare molto la figura di D’Annunzio e di poterlo leggere con interesse maggiore che prima non mi concedevo.
Ad un certo punto, nel film, Giovanni ha una sorta di cambio di rotta nei fronti di D’Annunzio prima e del fascismo poi. Tutto ciò però non lo rende a parole ma traspare dal suo sguardo e dai suoi gesti. Come ci sei riuscito?
Che bella domanda. Di fatto la sceneggiatura, le scene, in qualche modo lo dicevano già anche senza dirlo. Se fossi rimasto semplicemente sulle battute ovviamente non avrei potuto dirle senza calarmi in quelle situazioni emotive. Una battuta non è semplicemente quello che c’è scritto parola per parola ma creare qualcosa dentro di te per arrivare ad esprimerla con sincerità.
La cosa interessante del lavoro che ho fatto con Gianluca Jodice è stato anche il ritmo che lui ha scelto per raccontare questa storia. Le parole sono tante, precise ed importanti per oltre quelle parole c’è spazio anche per altro, come al montaggio. Per un attore è fondamentale riempire di vita le battute e trasmettere quello che succede al personaggio tra una battuta e l’altra.
In questo caso sono le immagini che valgono più di mille parole o i silenzi?
Credo che le parole siano modi per tradurre silenzi e immagini, io le metterei in antitesi. È bello quando si creano dei momenti in cui, dopo tante parole, anche un silenzio o un’immagine possono raccontare qualcosa.
C’è una scena che hai trovato particolarmente difficile da interpretare o che ti ha emozionato più delle altre?
Non è la prima volta che mi fanno questa domanda ma effettivamente non l’ho mai detto. La scena in cui Luisa regala a Giovanni una piuma di pavone appartenuta al Vate, come simbolo della loro vera amicizia. È una di quelle scene in cui si parla senza parlare, a parlare in questo caso sono gli occhi e poi segna la fine di un arco narrativo.
(Vi regalo un piccolo aneddoto che dimostra come Francesco sia un ragazzo umile, disponibile e con i piedi per terra. A questa domanda Francesco ha avuto un attimo di esitazione così gli rivelo la mia scena preferita, e lui mi risponde dicendomi ‘Ma sai che stavo pensando proprio a quello?! È incredibile.’)
Secondo te perché Giovanni ha preferito rifugiarsi sulla nave (luogo del primo, vero incontro con D’Annunzio) piuttosto che assistere ai suoi funerali?
Io l’ho vissuta come se Giovanni non volesse dirgli addio in mezzo a tanta gente, ma preferisce farlo a modo suo, dove si erano conosciuti, dove emotivamente gli ha fatto scattare qualcosa, un brivido lungo la schiena.
Dei tuoi prossimi progetti in cantiere cosa mi puoi dire?
In realtà per ora non c’è ancora nulla da dire. Sto facendo dei provini e spero che presto si potrà dire qualcosa a riguardo. Sia per il teatro che per il cinema, spero che ci siano entrambi nel mio percorso perché sono talmente diversi e mi auguro di riuscire a tenerli entrambi attivi.
Cosa ti senti di dire a coloro che leggeranno la tua intervista?
Mi auguro che il film continui ad avere una bella vita, che continui ad essere visto perché penso che sia una storia importante, fragile e delicata, e tutte le cose fragili sono preziose, importanti da vedere, da ascoltare.
A livello di insegnamento penso che questo film permetta di ricordare, sia a noi che agli ascoltatori, che esiste un tipo, una qualità di ascolto e di rapporto tra le persone diverso da quello a cui siamo abituati adesso.
Leggi anche
- Libera, tra rispetto della legge e desiderio di vendetta - Novembre 18, 2024
- Dal cinema alla fotografia: il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore si racconta - Novembre 12, 2024
- Il tempo che ci vuole: la lettera d’amore di Francesca Comencini al padre Luigi e alla Settima Arte - Ottobre 5, 2024