Doomood è il nuovo album degli Ottone Pesante (qui la nostra recensione), uscito in settembre 2020 per Aural Music e anticipato dal singolo Tentacles. Abbiamo incontrato due terzi di band, fra le poche ad esplorare il “brass metal”, per un lunga e costruttiva chiacchierata.
Ciao ragazzi! First thing First. Vi siete presentati com Doomood con un’etichetta. Perchè questa scelta? Da dove è nata questa necessità? Soprattutto, potrete raccontarci la storia degli Ottone Pesante?
Francesco: Cominciamo da quando è cominciata: siamo partiti io (Francesci Bucci) e Paolo (Raineri) con l’idea di fare musica estrema, includendo un batterista (Beppe Mondini). Eravamo, chiaramente, da soli. All’inizio conviene darsi da fare, suonare, farsi conoscere, presentare il progetto – come esperienze pregresse con etichette ne avevamo di sole negative, e abbiamo deciso di partire “fai da te”, fondando la Brass. La nostra etichetta. Con due dischi, ed un EP. Abbiamo fatto inoltre uno split, Sudoku Killer, insieme a Caterina Palazzi. La Aural Music, invece, ci ha accolto, abbiamo trovato la quadratura giusta. Siamo riusciti laddove non siamo riusciti con Apocalypse.
Vi aspettate dunque un maggior riscontro a livello di pubblico, più che di critica?
Paolo: Speriamo di sì. la Aural sicuramente ha più forza distributiva, il disco viene spinto in tutta Europa.
Francesco: Sì, veniamo distribuito anche in territori vergini per noi, America, Canada, Giappone.
Essendo dunque gli unici, più o meno, al mondo, a fare questo genere, ci si aspetta un certo riscontro. Era molto, prima di Doomood, che non sentivo qualcosa di così originale. E’ impressionante la mimesi fra heavy metal e uso degli ottoni. Perchè avete scelto come concept il “palindromo”? C’è una correlazione con i canoni jazz o classici?
Francesco: Non ci sono connessioni particolari. Il titolo del disco era già stato deciso, da fine Apocalypse. Sapevamo sarebbe stato più atmosferico, e lento. Quando ho cominciato a raccogliere il materiale già scritto, mi sono reso conto che Doomood è un titolo palindromo: facciamo così anche il disco! Mi sono messo, poi, a selezionare i giri che preferivo e a ribaltarli, specchiarli, in modo da capire se potevano funzionare anche alla rovescia. Abbiamo poi infilato tutto assieme, scartando un po’ di cose, ed è nato così Doomood.
A livello di concept, nella presentazione dell’album parlate di “parassitismo”. Come viene qui esposto questo concetto nel vostro disco?
Francesco: Noi volevamo comporre un disco più scuro, più triste, più angoscioso, più sofferto. Questo parassita, che può essere una lumaca, come quella in copertina, che serviva ad indicare il senso di rallentamento presente nel disco, è diventato ciò che ci fa star male come umani, e che ritorna ciclicamente, magari sotto aespetti diversi. Torna a farci soffrire, ed è un loop infinito che bisogna spezzare.
Paolo: E’ un viaggio dentro noi stessi verso cose che non vogliamo vedere, nella nostra oscurità. Infatti, all’uscita di Doomood, c’è stato il covid19… La prossima volta faremo un disco felicissimo!
Ecco, appunto, come vi siete vissuti i rinvii su rinvii della pubblicazione dell’album?
Paolo: Come una necessità. Eravamo in contatto con Aural in quel periodo, che giustamente lamentava problemi tecnici legati alla distribuzione. Per queste ragioni è stato posticipato. Ci teniamo particolarmente a Doomood, che uscisse in un bel periodo. Rimandati anche i tour ovviamente.
Non avete alcun live fino a fine anno?
Siamo provando a capire. E’ difficile programmare qualcosa in questa situazione, soprattutto per il tour europeo. Non ci sono linee guida precise, sono diverse per ogni stato.
Per ciò che concerne la produzione tecnica di Doomood, il livello di mixing è oggettivamente eccellente. Per far risuonare nel modo che voi preferivate i differenti ottoni, come avete lavorato col fonico?
Paolo: Col fonici, Riccardo Pasini, avevamo registrato lo split, e da lì siamo riuscitia sperimentare alcune cose già in mente: ossia far passare i suoni distorti dei nostri strumenti – abbiamo linee pulite e distorte, come Ottone Pesante – attraverso una catena di effetti complessi e farla uscire da amplificatori grandi come frigoriferi. Tromba e trombone pulito li abbiamo registrati noi a casa, siamo arrivati in registrazione col tipo di atmosfera che volevamo trovare: abbiamo lavorato su una gamma risicata di suoni, che differentemente combinata, crea particolari effetti. E’ stato divertentissimo: Riccardo ci ha seguito nei nostri deliri di distorsori, trombe, canali audio. Siamo stati curiosi ed ha pagato. Ha lavorato anche sul mix delle batterie, è stata tutta opera sua.
Francesco: ci intendiamo bene con Riccardo.
Senza limiti alla creatività. Ecco, abbiamo toccato un altro punto, cioè che la vostra musica, sebbene sia filtrata ovviamente per percorsi digitali, rimane sostanzialmente analogica. In un mondo, che, anche nel metal, diviene sempre meno fisico, e più elettronico. C’è chi fa musica, ora, estremamente fisica, ed estremamente commistionata.
Francesco: Facciamo musica fisica. Indubbiamente. Anche per lo sforzo indotto. Siamo affezionati al modo di suonare unos trumento, anche se Doomood è stato il nostro disco più lavorato – nei dischi precedenti semplicemente andavamo in studio, due, tre, take, ed ecco fatto il disco. Doomood, paradossalmente, è più prodotto: abbiamo registrato separatamente batterie, fiati, ed infine c’è stato l’assemblaggio finale.
Qual è la vostra storia come musicisti? Sono curiosa. Da ormai dieci anni, siete negli Ottone Pesante…
Francesco: Abbiamo cominciato giovanissimi. Iniziando dagli ottoni, dalla tromba, fin dalle medie, seguendo un percorso parallelo. Ci siamo diplomati in musica classica, la laurea al Conservatorio Jazz, e poi abbiamo cominciato a suonare con un gruppo ska, nostro, ma nel mentre abbiamo scoperto il metal – l’ascolto principale di entrambi. Abbiamo suonato come turnisti in varie formaizoni, come session man in studio, con lo svantaggio che dal vivo non eravamo chiamati quasi mai. I fiati vengono visti come un surplus evitabile. Abbiamo allora detto: Basta. Solo fiati, un progetto solo nostro. Coi primi esperimenti toccavamo anche più generi, più prog, ma dato che facciamo musica estrema, andiamo direttamente al death metal!
Chi annoverate fra le vostre principali influenze? Gruppi preferiti che sentite con maggior piacere?
Francesco: Negli ascolti storici che finiscono negli Ottone c’è il metal svedese, Opeth, Meshuggah, In Flames. Ora, fra gli sperimentali adoro gli Imperial Triumphant (leggi qui la nostra recensione), i Nero di Marte (post metal italiano).
Paolo: c’è un po’ di tutto di ciò che suoniamo e ascoltiamo finisce negli Ottone, un po’ di post/black metal, questi generi fusion più moderni, più ambient. Tipo i The Ocean. Siamo grandi fan di Colin Stetson, quel sassofonista americano che fa tutto in respirazione circolare, brani di un quarto d’ora.
Francesco: ma anche la musica per ottoni, le brass band più moderne, quei gruppi di musica elettronica con gli ottoni. Too Many Zooz, vari gruppi di Brooklyn, una marching band di Amburgo – i Meuthe – che fa musica elettronica. Apprezziamo tutto ciò che è sperimentale con gli ottoni. Che non sia solo jazz e banda. Ci interessa chi sentiamo affine come noi, cioè il donare una vita diversa ai nostri strumenti, che non siano solo di contorno, ma come dignità principe. Svecchiare questi strumenti, che la gente definisce, genericamente, “sax”.
Paolo: Fausto Papetti negli anni ’80 ha fatto disastri… Cerchiamo di smuovere l’opinione musicale dalla banda di paese.
Volevo condividere con voi, che siete musicisti sperimentali e innovatori, un dubbio che mi è sorto. A livello di concept, esattamente come avete fatto voi, credete sia ancora possibile innovare e dare un futuro differente alla musica? Creare di nuovo?
Francesco: Assolutamente sì. Ciò che sarà difficile trovare è il pubblico, ma l’idea differente ci sarà sempre, nella storia della musica.
Paolo: Secondo me, abbiamo iniziato da non troppi anni a mescolare i generi. Come nei cocktail: è un attimo mescolare male qualcosa, ma se ti riesce ottieni un gusto ottimo. Nessuno fino a qualche anno fa avrebbe pensati possibile suonare il black metal con gli ottoni, e invece noi l’abbiamo fatto! Abbiamo qualcosa in meno rispetto a chi suona chitarra e basso, ma anche molto in più, più possibilità.
Francesco: Vent’anni fa pensare che si sarebbero fatti dei pezzi in cui protagonista è l’autotune era assurdo. Quindi sono convinto ci sia margine di innovazione.
Paolo: Sperando che quest’ondata di roba passi presto…
C’è qualche artista, anche italiano, col quale vi piacerebbe collaborare, per dare una svecchiata alla scena?
Francesco: Preferisco l’ambito internazionale, appunto con Colin Stetson. Gli Imperial Triumphant. I Liturgy usano spesso gli ottoni ma in strumenti virtuali, farlo con strumenti veri sarebbe carinissimo… In ambito italiano abbiamo i classici nomi: Willie Peyote (ecco la nostra intervista)! Nei dischi precedenti ci sono molti ottoni ben arrangiati. I C’mon Tigre hanno fatto belle cose.
Paolo: Anche Ottone Pesante + Zu/Jacopo Battaglia verrebbe estremamente interessante.
Questa è una cosa che chiedo sempre agli artisti italiani di nicchia. Come vedete il mercato musicale in questo paese? E’ morto e defunto o ha ancora chances di riprendersi? Anche vedendo la partecipazione, magari, ai vostri concerti.
Paolo: Morto no, ma sonnecchia.
Francesco: Gli appassionati di musica ci sono ma sempre meno. La musica è cambiata talmente tanto: ascolti la radio, sono sempre le stesse 4 hit, e il mese dopo altre 4. E’ un circuito che è diventato minuscolo. Ai concerti, ormai, facciamo dalle cinquanta alle cento persone, in media. Fai fatica a riempire un locale medio per un concerto di OTtone Pesante. Per ciò che concerne dischi e vinili è sempre meno. C’è sicuramente stanca. Ci mancava il covid, fra l’altro. Il rischio è l’incapacità di sollevarsi, perchè, essendo così piccolo il circuito…
Paolo: Noi per stare in piedi siamo costretti a non girare più per l’Europa: il pubblico è sì di nicchia ma più educato, più còlto. C’è più partecipazione. Più club che possono programmare, occhio diverso dei direttori artistici. Le possibilità in Italia sarebbero fantastiche ma, forse, stiamo troppo bene.
Francesco: L’artista, il musicista,non viene considerato un lavoratore. Questo tipo di opinione negli ultimi mesi, col covid, è venuta fuori con tutta la sua prepotenza: siamo tutti fermi, attori di teatro compresi, tutto l’indotto di chi monta i palchi. Quasi nessuno si è preoccupato di questa situazione. Ce ne si è accorti, ma relativamente.
Paolo: risulti fra i sacrificabili. L’intrattenimento non è essenziale.
Far ripartire l’arte dopo una tale pausa sarà piuttosto difficile.
Paolo: C’è un sottobosco indipendente che s’è retto in piedi per la volontà di chi le fa, per dimostrare al pubblico che c’è la possiblità di una musica diversa. Magari qualcosa smuove nella testa delle persone.
Francesco: Abbiamo girato tanto all’estero, e a fine concerto, magari, nonostante hai fatto trenta persone, ti chiamano per fare un festivla importantissimo: da noi non succede. Anche se qualcuno è valido, di certo non viene chiamato a suonare in una venue più grande. Penso sia la mentalità dei direttori artistici meno disposti a rischiare. Inoltre, in Italia non c’è alcun aiuto finanziario verso i festival – e, da noi, quello c’è, è ristretto a lirica e jazz.
Infatti, anche a Roma e Milano, alcuni locali storici che hanno lanciato numerosi artisti, sono stati costretti a chiudere… Che tristezza.
Francesco: C’è anche da dire che la musica dal vivo sia molto meno contemplata dagli artisti maggiormente seguiti dal pubblico giovane.
Sì, si lavora e ci si promuove molto di più su Spotify: il mercato è cambiato completamente. Alla musica viene chiesto di essere un riempitivo, non un’aggiunta artistica alla propria vita.
Francesco: Siamo un po’ avviliti, ma si tira avanti e cerchiamo di essere ottimisti.
Doomood spaccherà. Grazie del tempo concessomi! In bocca al lupo per tutto, è stato un piacere!
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