Baudelaire, il fascino di un poeta in prosa

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Di fronte a intelletti superiori, come quello di Baudelaire, è difficile credere di trovarsi in presenza di un uomo. No, non si tratta neppure di un dio. Possiamo piuttosto dire che l’autore de “I Fiori del Male” faccia parte di quella schiera di dannati che un giorno vissero tra i piaceri del Cielo e, il giorno dopo si ritrovarono a vagare, sperduti, sulla Terra come anime in pena.

Metà angelo, metà demone, questo è Baudelaire. Ma anche gli angeli, anche i demoni, fermandosi a rimuginare sul proprio esilio, gemono per la condizione presente. C’è chi sprofonda come il disperato che si inabissa nel pantano, chi lotta con la fierezza di un leone, senza pensare alle lance che gli attraversano il corpo. E poi ci sono loro, gli eletti, che salgono fino al punto più alto del palo, guardano davanti a sé in quel tendone e, con una sottile asta, che poi è la loro penna, cominciano a camminare su un filo sospeso nel vuoto. Loro, i poeti, i sognatori; loro, i diversi, i disillusi.

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Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903, Helsinki, Ateneum Art Museum.

Baudelaire e la poesia in prosa

Di Baudelaire molti di noi avranno letto soprattutto i versi. Perciò è un poeta. Ma basta questa associazione a inquadrarlo come si deve? Non vi sembra un po’ troppo riduttiva? In realtà c’è molto, molto di più dietro a quest’anima perseguitata dalla propria coscienza. A parte il fatto che fu un grande critico d’arte, che scrisse aforismi graffianti, che tenne conferenze che molti si sarebbero sognati… Ma del Baudelaire prosatore, ne vogliamo parlare?

Quasi una prosecuzione de “I Fiori del Male”, come ebbe a dire l’autore stesso che ne scrisse cinquanta nell’arco di un decennio, i “Poemetti in prosa”, in alcune edizioni rinominati “Lo spleen di Parigi”, sono uno splendido esempio di prosa poetica. Che vuol dire “prosa poetica”? Baudelaire, in una lettera al direttore di “La Presse”, la descrive come una “prosa musicale senza ritmo e senza rima, duttile e irregolare, abbastanza da adattarsi ai moti lirici dell’anima, alle fluttuazioni della fantasia, ai sussulti della coscienza”. Una prosa, insomma, solo nella forma, che anzi presenta molte affinità con la poesia, a partire dalla musicalità di cui è capace.

Figli dell’insoddisfazione

Nei “Poemetti in prosa” i temi de “I Fiori del Male” ci sono tutti, a partire da quella sensazione di perenne incompleto appagamento che porta l’uomo a sentirsi estraneo al proprio secolo. Pensiamo al brano “Anywhere out of the world – Dove che sia fuori dal mondo”. Qui l’io narrante si rivolge direttamente alla propria anima. E cosa le dice? Le propone di partire, per il suo bene, per sfuggire al tedio e alla banalità dell’ambiente in cui vivono.

Dove andare, dunque? Nella calda Lisbona? Nella vivace Olanda? Nell’esotica Indonesia? O nelle fredde distese sferzate ogni giorno da vento e neve che si trovano in prossimità del Polo? Niente, niente potrà bastare a rimuovere l’elemento che più ci assilla: il mondo. E perché? Perché come può un’anima divisa, al punto da interloquire col suo corpo, trovare armonia nel mondo quando il solo equilibrio che le occorre, quello interiore, le sfugge ogni giorno?

La vita è un ospedale dove ogni malato è in preda al desiderio di cambiare letto. Questo qui vorrebbe soffrire davanti alla stufa, e quello là crede che guarirebbe accanto alla finestra.

A me sembra sempre che starei bene là dove non sono, e questa questione del traslocare è una di quelle che sto continuamente a dibattere con la mia anima.

C. Baudelaire, Anywhere out of the world, in Lo spleen di Parigi (Poemetti in prosa), introduzione, traduzione e note di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano, 1989.

La solitudine non è un mostro terribile

Dire che il mondo non piace a Baudelaire è forse un tantino fuorviante. Del resto è il mondo, e i suoi avvenimenti, a costituire il più grande stimolo di un artista, no? Serve soffermarcisi un istante in più, su questo punto, per capire meglio le radici della poetica di Baudelaire e il fascino esercitato su generazioni di scrittori che lo seguirono.

In un altro poemetto in prosa “Le folle” l’autore ragione intorno ai concetti di solitudine e moltitudine, apparentemente distanti anni luce tra loro, eppure così vicini nelle intuizioni del poeta. Entrambi sono indispensabili e preziosi, entrambi possono fare paura. Trovarsi in mezzo a una moltitudine, per strada, può immediatamente sprofondarci in una sensazione di panico, simile a quella provata dal protagonista de “L’urlo” di Munch. E in una Parigi come quella di Baudelaire, ampliatasi a dismisura negli spazi e nelle disuguaglianze sociali, questa sensazione può veramente farsi più forte. Ma anche la solitudine, dal canto suo, può essere altrettanto impietosa.

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Gustave Caillebotte, Strada di Parigi in un giorno di pioggia, 1877, Chicago, Art Institute.

Come riuscire, quindi, a convivere con un mondo da cui non è possibile scappare, almeno fisicamente? Il segreto sta nel lavorare su se stessi. Popolare la solitudine di presenze create ad arte, riempire i silenzi di voci e dare un senso ai minuti trascorsi in compagnia di quello che siamo diventati. Stesso sforzo è richiesto nella moltitudine: estraniarsi, creare il vuoto intorno a sé, ignorando la folle corsa di chi ci urta e prosegue, è fondamentale per vivere bene, non solo sopravvivere.

Moltitudine, solitudine: termini equivalenti e convertibili per il poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la sua solitudine, non sa neppure restare solo in mezzo a una folla indaffarata.

C. Baudelaire, Le folle, in Lo spleen di Parigi (Poemetti in prosa), cit.

Baudelaire consiglia: ubriacatevi

Se si riesce nel proposito, si è già un passo avanti nel rapporto col mondo, perché si sarà intervenuti sulla parte di esso, cioè noi, con cui possiamo dialogare più facilmente. Armati di questo stato d’animo non sarà difficile percepire i numerosi piaceri sempre a portata di mano.

In un poemetto, “Ubriacatevi”, che giustamente sottrae Baudelaire alla consueta aura fosca per restituirlo alla gioia di vivere che pure gli è propria, il poeta sostiene che è necessario persistere in un perenne stato di ubriacatura. Ubriacatura di cosa? “Di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro. Ma ubriacatevi”. Che altro dire dopo una lezione così, di uno che, per quanto emarginato per suo e altrui volere, ci vide tanto lontano? Niente. Ubriacatevi!   

Massimo Vitulano
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