Death Stranding: Una guida non guida – Non sono mai stato un vero e proprio gamer, a meno che per “gioco” non volessimo intendere quel continuo divincolarsi tra i fiordi della vita di tutti i giorni. Non sono mai stato troppo tempo davanti allo schermo di un PC (e un poco me ne dolgo) valutando e sperimentando nuove esperienze di gameplay, storie ecc ecc
Proprio per questo è ultimo dei miei pensieri il recensire un videogioco. Di fatto, quanto segue, non sarà una vera e propria “guida” al playthrough. E non lo sarà in quanto Death Stranding, ultima fatica estratta dal genio di Hideo Kojima, non me ne vogliate ma non può e non deve essere considerato un gioco.
Dalla sua uscita, fissata lo scorso otto novembre, Death Stranding ha già ampiamente fatto parlare di se dividendo in maniera netta l’assolutamente ampissima fetta dei suoi “giocatori”. Da un lato chi lo ha amato, dall’altro chi lo ha considerato il flop del secolo.
Si sprecano le review sulle varie testate on line e non, i video su youtube fatti da chi, come Sabaku, ne è rimasto totalmente incantato (vi invito, tra l’altro, a seguire i suoi playthrough, rilasciati ogni giorno alle 15 in punto) o anche da chi, come Synergo del famoso canale Quei due sul server, non sembra averlo particolarmente apprezzato.
L’accusa dei detrattori di Death Stranding, nel grosso dei casi, si concentra su un puro e semplice punto. Il gameplay
Lo stesso precedentemente citato Synergo, in più punti, ne ha avanzato le criticità (alcune vere, altre un poco meno) lasciando, purtroppo, da parte il contenuto più rilevante dell’esperienza videoludica proposta dalla Kojima Productions. Il messaggio.
Molti coloro che hanno messo da parte il peso della storia e dei suoi significati concentrando la loro analisi sulla nuda e cruda esperienza di gioco. Non ci sarebbe, però, modo più sbagliato di interpretare un prodotto come quello di Death Stranding.
Quella in cui veniamo trascinati da quel cast stellare composto da Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Guillermo del Toro and co. è un’esperienza vicinissima al cinematografico
Le undici ore di video, realizzate tramite vere e proprie riprese e recitazione, non sono un semplice compendio alla storia ma sono ben si un perno fondamentale dell’esperienza.
Death Stranding, di fatto, è in primis un’esperienza emotiva. Le ore spese, durante il gameplay, a trascinare qua e la pacchi tentando di evitare le numerose insidie di un mondo post – apocalittico sono quanto di più necessario a calare il videogiocatore nella reale natura del problema, facendogli vivere al 100% quel clima pre – estinzione in cui si trova un mondo che, in qualche modo, tenta di ribellarsi alla fine.
Come? Creando delle connessioni. Quelle stesse connessioni che vanno a definire le storie di quei personaggi secondari che, in fin dei conti, secondari non lo sono poi così tanto. Die – Hardman, Heartman, Mama, elementi narrativi di spicco non solo ottimamente interpretati e calati nel contesto ma dotati di una realtà storica e personale profonda, che aiuta ad empatizzare con loro e con il mondo circostante, quel mondo da salvare, quell’America da unificare.
Giudicare Death Stranding unicamente dal gameplay lasciando indietro il messaggio, la storia, è come voler giudicare un album senza considerarne l’idea dell’artista, come voler giudicare un film mettendo da parte la sceneggiatura. Un’operazione priva di senso, impossibile da realizzarsi.
Le pecche, nel gameplay, ci sono ovviamente
Un menù principale molto complesso e piuttosto ostico a chi non abituato a titoli gestionali, un’IA che lascia realmente a desiderare e delle boss fight forse un poco troppo facilotte che non sono in grado di far percepire al 100% la pericolosità del nemico che abbiamo di fronte.
Difetti, questi, che non bastano però a inficiare la bellezza di un titolo che nasce con uno scopo che va decisamente al di la del semplice intrattenimento. Un titolo che vuole stupire, emozionare, insegnare qualcosa. Un titolo che, nell’era in cui i legami fanno sempre più paura, vuole ricordarci l’importanza di essi, facendoci rendere conto di come la solitudine sia in realtà la vera morte.
“Non vi è differenza tra vita e morte se si è da soli”, per citare Amelie, uno dei controversi personaggi di Death Stranding
Sarebbe stato impossibile rendere il concetto semplicemente tramite un film. L’esperienza di confine tra il videoludico e il cinematografico è necessaria a rendere maggiormente immersivo il titolo, a calare ancora di più il giocatore/spettatore nell’ambiente abbattendo quanto più possibile il grado di separazione.
Per questo, Death Stranding, andrebbe vissuto con più cuore e meno testa.
Non come un gioco e nemmeno come un film, ben si come una lettera su cui passo dopo passo dobbiamo impegnare gli occhi nella lettura. Un enigma da sciogliere per arrivare alla soluzione finale impegnando tutte le nostre forze.
Un titolo da prendere a braccia aperte, dimenticandosi delle nostre abitudini, quelle più dure a morire, tentando di viverlo in maniera diametralmente differente dal resto.
Una storia da sciogliere, un messaggio da svelare, una connessione da creare. Questo è Death Stranding, e non può essere vissuto diversamente per non metterne a rischio la comprensione.
Forse, per una volta, potremmo tutti mettere da parte sterili polemiche e polemicucce per lasciarci andare a quello che è il vero significato di qualcosa
Forse potremmo passare ore a ragionare sul COME evitare il nostro Stranding più che su quanto sia o non sia valido questo gioco. Forse potremmo applicarci per cercare di capire come ottimizzare il messaggio lanciatoci, così tremendamente attuale, per rendere migliore un futuro che tutto sommato è ancora nelle nostre mani.
Forse potremmo farlo…ma a quanto pare non sarà così. Non ci sarebbe stato altrimenti bisogno di un titolo come Death Stranding a ricordarci che, una volta per tutte, dovremmo ricercare la connessione, quella vera, quella in grado di mantenerci uniti e sconfiggere la solitudine. Quella in grado di andare oltre il passato, oltre il futuro, e dare un significato a un’esistenza che, vissuta senza dei legami stabiliti in profondità, negli abissi del nostro animo, può soltanto perdere di senso.
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