Endimione, il titolo dell’ultima raccolta poetica di Claudio Damiani (Interno Poesia, 2019) è il nome di un personaggio della mitologia greca, il pastore che con la sua bellezza fece innamorare Selene e finì addormentato per sempre, probabilmente a sognarla, l’amata luna. Endimione, però, è di più: oltre a un nome e a un titolo è un epiteto, da associare al poeta: Claudio Damiani Endimione. Questo, poi, ce lo suggerisce anche la foto sulla copertina, che ritrae il poeta dormiente con accanto un cane, vigile, come si vede nelle opere raffiguranti il personaggio mitologico.
Il verbo dormire, tuttavia, non è corretto per descrivere Endimione e la sua attività. Damiani tiene a precisarlo prima che inizi la raccolta, e cioè nella pagina delle citazioni, prendendo in prestito le parole di Boccaccio, Cicerone, Keats, Calogero. Endimione ha dormito – e quindi perso tempo – soltanto a giudizio degli stolti, scrive Boccaccio. In realtà, non ha dormito bensì meditato, che è ben diverso.
Fin dalla prima poesia (“Rifacendo tutti i calcoli / mi venivano sempre differenti”, pag. 11) il lettore incontra l’indeterminato, lo sfuggevole, ciò che sembra esserci, appare e poi scompare, si nasconde. Ciò che cambia se guardato, e che, se finalmente preso – dopo molti tentativi – si disfa tra le mani. Cos’è questo soggetto/oggetto/creatura che tanto assomiglia a una farfalla che si posa sulle spalle solo quando ci stanchiamo di inseguirla? Damiani non ce lo esplicita, ma è una cosa che, appunto, diventa nostra solo quando smettiamo di cercarla, è un compagno di viaggio che non vuole essere invitato, o forzato: “Un giorno che stavo sdraiato per terra, in cima a un monte / con la faccia rivolta al cielo, e guardavo due nuvole, / sentii la sua mano che mi passava sulla fronte / e mi accarezzava i capelli” (pag. 11).
La prima poesia è un consiglio velato che il poeta ci dona, senza esibizione di saggezza, senza la fastidiosa presunzione di chi sa come si fa e vuole insegnare.
E infatti, solo dopo aver elencato i fallimentari – e movimentati, frenetici – tentativi di ottenimento dell’oggetto desiderato, Damiani ci racconta di quando – un giorno, inaspettatamente, quasi per caso – l’oggetto stesso si è palesato, e ha persino desiderato un contatto fisico. Perché in quel momento? Perché non quando ardentemente il poeta agitava gambe e braccia con l’obiettivo di raggiungere e afferrare? Il consiglio sta proprio qua: fermatevi, ci dice Damiani. La smania ci rende ciechi e incapaci di ottenere, la frenesia spaventa ciò che vogliamo.
Solo quando siamo calmi, sereni, distratti da altro – “due nuvole in cielo” – ci accorgiamo che anche il desideratum desiderava noi.
Spesso quest’incontro felice accade – intuibilmente – in sogno, ed è da lì che il poeta ci scrive. Da molto lontano, dove tutto è indefinito e senza netti contorni; dove le cose durano per sempre. I verbi sono quelli del sogno (“non ricordo le parole / eppure ricordo di averle intese”, pag. 12; “o ti ricordavo, non sapevo se ti vedevo / o non ti vedevo, se eri dietro a qualche cosa / o davanti”, pag. 25) e anche i tempi: imperfetto e passato remoto quelli più utilizzati.
Tornando a Endimione, Plinio il Vecchio, realizzando il mito, ce ne parla come di uno studioso di astronomia e ci dice che fu il primo uomo a osservare le fasi lunari con attenzione. È quindi un Endimione che dorme e – dormendo, a occhi aperti anche – osserva e sente. Così è l’Endimione di Damiani (che è lui stesso, e forse l’uomo in generale). Lui però non usa strumenti particolari, utilizza tutti i sensi insieme. L’importante è avere un luogo appartato (tranquillo, come piace definirlo alla scrivente) e che garantisca protezione. Un angulus, “un punto di osservazione”, un “laboratorio segreto” dal quale stabilire “le connessioni” (pag. 13). È oraziano qui Damiani, come altrove. Ciò che si ottiene ha a che fare con le piccole cose del poeta latino citato sopra, e che spesso sembrano stupidaggini:
“può succedere che a volte / capisca qualcosa che è una voce vera del cielo, / una sua frase importante, come un messaggio cifrato / o forse una frase non importante, ma che viene dalla sua voce, / parole che riguardano le piccole cose, stupidaggini / ma che vengono da lontano, molto lontano” (ibidem).
Riportare la vita all’interno di schemi semplici, elementari non aiuta certo a comprenderla meglio, ma sicuramente a viverla in maniera più spontanea e serena. Anche la morte (che Damiani non nomina direttamente ma attraverso eufemismi come “la nostra caducità”, “il nostro finire”, pag. 14; “salire sul patibolo”, pag. 18) “potrebbe essere comprensibile, accettabile” se venisse vista da un’altra prospettiva, senza accanirsi o scervellarsi oltremodo: e se, dice il poeta, “da misure molto piccole / fosse tutto chiaro, e noi fossimo salvi?” (pag.14). Vivere, semplicemente, senza indagare oltre il dovuto, senza imbatterci in domande la cui risposta neanche c’è: “puoi guardarmi passare / con tutte le mie domande / senza risposta” (pag. 16).
Inutile riempirci di interrogativi, e anche nocivo: “Ringraziamo, e andiamo avanti, giorno per giorno / senza capirci niente […] senza sapere cosa succederà” (pag. 17) è il segreto per essere felici.
Anche qui il riferimento a Orazio è chiaro: scire nefas, è vietato sapere – non è lecito – quale fine ci aspetti. Una certezza ce l’abbiamo, ed è quella che la fine arriverà (mors et fugacem persequitur virum, inutile fuggire). Fino a quel giorno possiamo solamente “passare la vita / e finirla tutta fino alla fine, / berla fino alla feccia” (pag. 15). Siamo tutti condannati a morte, tutti imprigionati in una rete, oppure privilegiati che hanno in mano un dono da plasmare nel miglior modo possibile; come ci dice Damiani: dipende dal punto di vista che decidiamo di adottare. Berla fino alla fine, ed essere felici per ciò che abbiamo (“salute, figli, il bene dei propri cari”, pag. 15) sperando di non perderlo.
La paura della perdita di ciò che si ha ossessiona un po’ tutti, ma anche per questo esiste una soluzione: accontentarsi di poco, evitare gli eccessi. I versi di Damiani “anche ai ricchi gli manca tutto / e i poveri sono più vicini alla verità che è la povertà” (pag. 17) ricordano ancora Orazio: a chi chiede molto manca molto e chi ha molto (oltre a volere sempre di più, stravolgendo l’equilibrio delle cose) vive con la paura che gli venga tolto: Crescentem sequitur cura pecuniam. Chi invece è felice di poco e si accontenta vive beato: “Perché tu stai qui senza chiedere niente / ma pago di te stesso stai quieto” (pag. 34).
Quello che si apprezza di Damiani è che rifugge la figura di poeta saggio, detentore della verità, che condivide con il vulgus dall’alto di una piedistallo.
Tutti sanno come si dovrebbe vivere bene, ma un conto è saperlo, un altro è metterlo in pratica. I dubbi, le domande, le paure, ci sono, inevitabilmente: fa parte del nostro essere uomini. Siamo “tutti uguali, tutti nella stessa barca” (pag. 17), “siamo qui e ci vengono dubbi atroci / la notte siamo assaliti da sogni incomprensibili / il giorno proviamo a capire, ma non capiamo” (pag. 19). Sognare ci aiuta ad avvicinarci alla verità, alla comprensione delle cose, ma questa comprensione rimane relegata alla dimensione onirica. Nel sogno può anche sembrarci di aver capito, di aver afferrato qualcosa, di essere arrivati “al cuore del problema” (pag. 19). Questa sicurezza svanisce una volta riaperti gli occhi, quando assistiamo allo scontro delle due forze, quella del sogno e quella della realtà.
Insomma, problemi, scocciature, affanni, ci sono, fanno parte della vita, bisogna conviverci. Come? Stando fermi, respirando piano, facendo come l’albero che, sebbene anche lui abbia probabilmente le sue preoccupazioni, le accetta con pazienza, stando fermo, “non allontanandosi dal posto” (pag. 19). L’immagine dell’albero, ben ancorato al terreno con le radici, è il simbolo di chi, saggiamente e stoicamente, sopporta “gli insulti del tempo” e che è possessore di quell’animus aequus che combatte la strenua inertia, cioè quella smania mista a torpore che impedisce di vivere bene. Bisogna fare come l’albero, rafforzare le radici e resistere alle tempeste, quando ci sono. Il tema, per contrasto, ne richiama un altro, antico sempre, quello della commutatio loci: per diventare felici non basta essere altrove, se si rimane uguali, se l’infelicità è dentro di noi e inevitabilmente ci segue ovunque andiamo. Ecco, quindi, proprio come fa l’albero di Damiani, sopportare sì, ma non farlo passivamente: “rimanendo fermo, non allontanandosi dal posto, / prendendo quello che trova, che c’è, / e provando a trasformare in bene / anche i mali”.
Solo l’amore fa nascere il desiderio di fermarsi, di trasformare tutto in bene e di non fuggire più in cerca di qualcosa: “mi piace dormire tenendoti stretta / come se tu fossi un albero meraviglioso / dai frutti mai gustati / e io avessi messo radici ai tuoi piedi” (pag. 32).
Facile poi innamorarsi di chi è fermo e, felice, sorride:
Tutti si muovono, vanno su, vanno giù,
fanno questo, fanno quest’altro
e chi sono io? E chi sei tu?
tu invece non facevi niente
stavi lì ferma, seduta
e soltanto sorridevi.
(pag. 35)
Se proprio ci si muove è per vagare, spensierati, senza fretta: “Sì, ho cercato / ma adesso vorrei vagare” (pag. 27); “C’è stato un tempo, ricordi, / che vagavamo insieme / e ci baciavamo a ogni angolo” (pag. 28).
Camminare, passeggiare, poi fermarsi a cogliere dei fiori, accorgersi di ciò che si ha intorno, dei dettagli, delle piccole cose che insieme fanno una vita, che fugge certo, ma è ripercorribile, attraverso il ricordo (verbo caro al poeta) e al sogno, dove esiste “un tempo interminabile” (pag. 59) e ogni cosa è possibile, anche addormentarsi “pur continuando a camminare” (pag. 55) come in un gioco di piani specchiati. Finché all’uomo poi sarà concesso di sognare, di ricordare e di scrivere, non morirà mai del tutto.
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