Francisco Goya nacque nel 1746 e, per oltre sessanta anni, fu uno dei grandi protagonisti della vita artistica (e non solo) della Spagna; con le sue opere ha definito un’intera epoca, anticipando addirittura quello stile che verrà definito, successivamente, con il nome di arte moderna.
Le opere di Goya sono essenzialmente divise in due macro-aree: esiste infatti un primo e un secondo Goya. Se durante la gioventù i suoi dipinti si contraddistinguevano per la loro spensieratezza, lo spartiacque della sordità e della vecchiaia hanno completamente cambiato il personaggio, rendendolo molto più oscuro e inafferrabile.
Questa seconda parte della sua vita, dettata anche dall’allontanamento di Goya dal centro della città di Madrid per via delle continue pressioni assolutistiche di Ferdinando VII, lo ha portato a tirare fuori, questa volta in maniera palese, i suoi più tenebrosi pensieri.
Più dei Capricci e più della brutalità dell’uomo e della guerra, il vero lato cupo di Goya verrà fuori durante i suoi ultimi anni: rinchiuso dentro la Quinta del Sordo, la sua casa alla periferia di Madrid, il pittore spagnolo dipingerà il famoso ciclo delle pitture nere.
Dal 1819 al 1823 Goya decide quindi di creare delle vere e proprie opere murali, dipinte sulle pareti della sua abitazione grazie alla tecnica dell’olio su muro. In questo contesto domestico avvenne la trasformazione totale dell’uomo: da un contesto tipicamente illuminista e razionale, Goya si è mutato in un essere tipicamente romantico, se così lo si può definire.
Con queste quattordici opere murali il suo getto diventa ancora più spontaneo, la sua irrequietezza prende completamente il sopravvento sul rigore stilistico; trasgredendo completamente agli usi e alle forme dell’epoca, Goya ha lasciato, con le pitture nere, una profonda cicatrice nella storia dell’arte.
Dopo la morte del pittore spagnolo, le opere della Quinta del Sordo vennero protette e curate dal nipote Mariano Goya: per la completa salvaguardia dei capolavori bisognò però aspettare l’arrivo, nel 1874, del nuovo proprietario della casa, il banchiere francese Émile Baron d’Erlanger.
Per volere del neo-acquirente, le pitture nere furono trasferite su tela: la finalità principale, oltre all’ovvia conservazione dell’opera, è quella dell’esposizione. Émile Baron d’Erlanger era infatti intenzionato a presentare, durante l’Esposizione Universale di Parigi del 1887, l’intero ciclo di opere murali di Goya.
Saturno che divora i suoi figli (1819-1823)
La prima opera che viene in mente, sentendo parlare di pitture nere, è sicuramente quella di Saturno che divora i suoi figli. Il dipinto si ispira alla mitologia greco-romana, secondo la quale il dio Saturno (Crono per i greci), padre di Giove (Zeus per i greci), mangiò tutti i suoi figli per paura di essere spodestato dal suo trono.
Trovandoci di fronte a questo dipinto, non possiamo rimaner meravigliati e inorriditi da questo macabro spettacolo. Il padre che divora il figlio, potente allegoria del vecchio che divora il nuovo, assume per Goya anche una forte valenza storica.
Soffocato dalla Guerra Civile, il pittore si ritrova senza speranza in un gorgo senza fine, un eterno spazio oscuro dettato da Saturno che divora uno dei suoi figli. La Spagna si è quindi tramutata nel violento dio, che senza pietà divora e distrugge i suoi figli.
Il particolare degli occhi di Saturno denota inoltre la completa perdita della ragione: per Goya il dio è così abituato a compiere questo atto che ormai la sua follia lo ha reso cieco di fronte alla brutalità di divorare i suoi stessi figli.
La posa del corpo del figlio, unica fonte di luce dell’opera, sembra essere quella di un Cristo sofferente: nonostante gli manchi la testa e un braccio, la disposizione del corpo, data anche dal morso di Saturno, richiama ad una immaginaria posizione di crocifissione.
Interessante è anche il richiamo a la Punizione di Marsia di Tiziano: come nel dipinto del grande maestro italiano, anche Goya compie pennellate confusionarie, distorte, che pongono ancora di più l’accento sul pathos che si crea con lo spettatore.
Il Sabba delle Streghe (1821-1823)
“guarda nei miei occhi / vedrai chi sono / il mio nome è Lucifero / prego prendi la mia mano”.
Come cantavano i Black Sabbath, anche in Goya la figura di Lucifero/Satana/Moloch (gli sono stati attributi un’infinità di nomi) diventa l’elemento cardine dell’opera. Se però da una parte abbiamo il principe delle tenebre, Ozzy Osbourne, ad evocarlo, dall’altra ci pensa Goya con il suo Sabba delle Streghe.
In verità l’obiettivo del pittore spagnolo e del cantante inglese non è assolutamente quello di iniziare una messa satanica, ma quello di voler rappresentare, attraverso l’entità maligna per eccellenza, il male della società.
Nel dipinto di Goya la figura di Satana appare nella sua classica tenuta da caprone, una silhouette completamente nera che siede a capo di un cerchio composto da fedeli, da streghe che ascoltano i racconti del loro Dio.
La denuncia compiuta da Goya, di ovvio stampo sociale, risiede in una critica all’indottrinamento, a quel seguire con occhi ciechi le azioni (e anche le fantasie) del potente; il richiamo a Ferdinando VII, che qui per il pittore spagnolo prende le forme del demonio, è ancora vivo e presente nelle pitture nere.
Alla calma del potente si contrappone infatti l’estasi incontrollata del popolo, che gemita, scalcia, uccide, violenta: la vera essenza demoniaca dell’opera non risiede in quella misteriosa figura nera, ma negli spettatori che sacrificano la loro umanità.
Prendendo forma di spiriti maligni, bianchi in viso e con bocca digrignata come animali, la popolazione che circonda il maligno diventa essa stessa la vera parte oscura della società.
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