Se diciamo Gozzano diciamo poeta, “tenue e delicato”, come lo definisce Emilio Cecchi (Gozzano e Corazzini, in: “Storia della letteratura italiana – Il Novecento”, vol. IX, Garzanti, 1969) e “l’ultimo dei nostri classici”, come scrive Eugenio Montale nel noto saggio introduttivo a Le poesie (Garzanti, 1971). Gozzano fu sì grandissimo poeta – di poesia “minore”, come per tradizione si dice – e tanto più grande perché si fece strada all’interno del panorama poetico “familiarmente, con le mani in tasca” (Ivi, pag. 8) entrando subito nel gusto del pubblico, con un “riconoscimento immediato, ampio, sorprendente” (Guido Gozzano, presentazione di Giampiero Comolli, a cura di Sandro Onofri, L’Unità, 1993).
Di lui ci rimangono due raccolte: La via del rifugio (Streglio, 1907) e i famosi Colloqui (Treves, 1907); la morte – “la Signora vestita di nulla” de L’ipotesi – giunge prematuramente, ma non senza avvisare, nel 1916, quando Gozzano ha poco più che trent’anni ed è malato di tubercolosi polmonare già da molto tempo, lasciando incompiuto il poemetto Le farfalle.
Non solo poesie
Ma se diciamo Gozzano non possiamo dire solamente poeta: di lui abbiamo anche racconti, novelle, fiabe, scritti di viaggio, sceneggiature. E non ci stupisce questo suo talento di narratore se già i suoi versi, come scrive Montale nel saggio citato sopra, “più che cantare raccontano, descrivono, commentano” (p. 10). Pensiamo alla famosissima La signorina Felicita ovvero la Felicità (la poesia di Gozzano per eccellenza), o alla struggente Paolo e Virginia, o a Totò Merúmeni, insomma pensiamone una: stiamo leggendo una novella in versi.
Eppure le sue prose vere e proprie vengono lette molto meno, o non lette affatto, e come pretendere il contrario se in molti testi (e mi riferisco a manuali, scolastici e anche universitari, che sono quelli che per lavoro ho di solito sotto gli occhi e che dovrebbero – se non altro per amore del lettore curioso – almeno citare) non sono menzionate che le poesie? Ed è un peccato perché, come le lettere ad Amalia Guglielminetti (questo sì un testo abbastanza letto, per via della fortuna che di solito hanno i carteggi amorosi) “per il lettore dei ‘Colloqui’ completano la sua figura” (sempre Montale, pag. 14), anche le prose, e soprattutto le fiabe, ci dicono molto dello scrittore torinese.
Fiabe spesso e volentieri trascurate dalla critica e anche dai lettori, per colpa di un pregiudizio che fa della fiaba (e della favola) un genere che può essere fruito esclusivamente da bambini (d’altronde lo stesso Gozzano aveva scritto le sue fiabe per il «Corriere dei Piccoli»). Peccato, anche qui, perché fiaba e poesia in Gozzano sono strettamente connesse – insieme opposte e complementari – e perché tralasciare testi la cui stesura impegna Gozzano dal 1908 fino al 1916, anno della morte, significa lasciare in ombra una parte importante di un poeta sempre molto apprezzato.
Dal punto di vista formale, Gozzano si rifà alla fiaba tradizionale: struttura narrativa molto semplice, personaggi con ruoli fissi, presenza costante di un oggetto magico, sconfitta dei cattivi e vittoria del Bene sul Male. Ma allora non hanno nulla di speciale, si direbbe, e a torto, perché le fiabe mostrano un Gozzano diverso da quello delle poesie, a partire da due caratteristiche poetiche: l’ironia e la malinconia.
Poesia e fiaba in Gozzano
Nella poesia, “alla inossidabile serietà di Pascoli e D’Annunzio (ciascuno “eroe” a suo modo), il poeta contrappone i propri anti-eroi” (Poesia italiana del Novecento, a cura di Umberto Fiori, Mondadori, 1995), come per esempio il già citato Totò Merúmeni (deformazione di “Heautòn Timoroùmenos” che significa “punitore di sé stesso” e che è il titolo di una commedia di Terenzio, e poi di una poesia di Baudelaire, dedicata proprio all’ironia).
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
Da “Totò Merúmeni”
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.
[…]
Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.
Cosa possono tipi come Totò Merúmeni di fronte all’eroismo di D’Annunzio se non aspettare, sorridendo – “Si aspetta sorridendo la morte” scrive Gozzano al critico Giulio De Frenzi in una lettera del giugno 1907 – e nel frattempo vivere (tra l’altro il verso “E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà” ricorda “vive tra il Tutto e il Niente” della poesia La via del rifugio, in cui Gozzano si riferisce a sé stesso), senza lasciare niente dopo la morte, ché se c’è una cosa a cui Gozzano non crede è proprio la poesia eternatrice (ma a quanto parte si sbagliava). Nella fiaba accade il contrario: ci sono sì anti-eroi – e molti, anche; quasi tutti i protagonisti lo sono. Ne I tre talismani (che dà il titolo al volume uscito nel 1914, che contiene sei sole fiabe e che è l’unico che non sia postumo) il protagonista è Cassandrino “poeta e il più miserabile”; ne La camicia della trisavola è Prataiolo, un orfano “tardo e trasognato, tenuto da tutti per un mentecatto”; ne La fiaccola dei desideri è Fortunato, “malaticcio, gobbo, distorto”.
Ognuno di questi personaggi, in un modo o nell’altro – utilizzando spesso l’astuzia e l’intelligenza e se queste doti non sono possedute allora la gentilezza, che permette di ottenere favori da aiutanti fatati od oggetti magici – riesce a raggiungere i propri obiettivi, e spesso anche di più. Nella fiaba non c’è tragedia che non si possa affrontare e risolvere; non c’è disperazione né sconforto che impediscano di fare qualcosa e ben sperare nell’avvenire; non c’è malinconia delle cose perdute perché anche ciò che si è perso si può riconquistare e, per ultimo, non c’è la straniante ironia della poesia perché ognuno è faber fortunae suae e nessun Divino, nessun Poeta della fiaba è irraggiungibile.
Se la poesia, quindi, mostra il lato malinconico di Gozzano, la fiaba ne rivela quello allegro, spensierato, vincente. Prendiamo per esempio una poesia, La via del rifugio. Qui c’è l’infanzia, il gioco, la filastrocca, il girotondo ma vi è comunque un sottofondo di morte, concretizzata nella scena in cui le tre nipoti del poeta trafiggono una vanessa.
L’insegnamento della fiaba
Una cosa poi ci insegnano le fiabe di Gozzano: la bellezza della vita semplice, genuina, naturale. Il poeta Cassandrino, per esempio, un volta risolta la situazione, non chiede altro e se ne torna da dove era giunto e “sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l’avventura”. Della stessa cosa ha bisogno Gozzano quando – quasi ringraziando la sua malattia, che lo costringe a lunghi tempi lontano da Torino, in montagna o al mare – scrive a Guglielminetti (il 1 dicembre 1907):
[…] mi sento cattivo con tutti, Voi non esclusa. È la città che mi rende così: le visite forzate e i commiati sorridenti a gente detestabile e dozzinale, il peregrinare fra le cose: gli automobili, i socialisti, le biciclette, i preti, i tramvay, il dottore, il dentista, il sarto, il parrucchiere, i parenti, l’università, gli uomini che fanno schifo (tutti) e le donne che fanno pena (tutte). E ritorno a casa con le mascelle irrigidite e le falangi delle dita che cricchiano dallo spasimo nervoso.
Io penso con terrore a quel che succederebbe di me, se non fossi ammalato, e dovessi riprendere un’esistenza cittadina…
Ma quando poi si trova a San Giuliano d’Albaro (il 9 dicembre 1907):
[…] Il mare è pur sempre il grande purificatore: io mi sento l’anima leggera e monda, nata da ieri! C’è un tepore, una gaiezza nell’aria! Tutto l’orizzonte che traspare dalla mia finestra non è che l’armonia di due fasce azzurre: una più cupa: il mare; una più chiara: il cielo – Vi scrivo come posso, amica mia! Sono quasi ginocchioni su di una seggiola col foglio sopra un libro e il libro sopra il canterano: non ho ancora una scrivania! Ma c’è il mare fuori…
Ancora, dallo stesso luogo (l’11 dicembre 1907):
Voglio guarire! La vita è ancora bella, per chi ha la scaltrezza di non prendervi parte, di salvarsi in tempo. Per questo io benedico il mio male che mi impone questo esilio della persona e dell’anima. […] è per me, uno strano senso il leggere sotto questo cielo aperto, dinnanzi a questo mare senza confini, le parole scritte o stampate dagli uomini… Sono felice! Genova è vicina molto: ho quasi ogni giorno visite. Qualche volta, anche, mi lascio sedurre: indosso un abito decente, metto un solino candido, e vado in città. Ma ritorno alla sera, senza rimpianti, al mio povero eremo peschereccio…
La via del rifugio è quella dal reale, dalle aspirazioni mondane, dalle passioni (“La passione è un ingombro al cammino” scrive in una lettera a Guglielminetti del 21 marzo 1908); è quella della poesia, e della fiaba.
Un’edizione delle fiabe (che non sia per bambini) è: Fiabe e novelline, a cura di Gioia Sebastiani, edito da Sellerio. Sono comunque leggibili su vari siti web, e anche ascoltabili, su Rai Radio Kids (anche dagli adulti!).
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