Se è vero, come diceva Italo Calvino, che un classico è tale quando non smette mai di dire ciò che ha da dire, la definizione aderisce perfettamente a Il buio oltre la siepe.
Pubblicato nel 1960 e scritto da Harper Lee, il libro ha raggiunto il nostro tempo con un successo trasversale; è altrettanto apprezzato come lettura per ragazzi o adulti, come classico romanzo di formazione, ma non ha perso un briciolo della sua attualità. In certi passaggi si arriva quasi a dubitare, si torna indietro a rileggere pensando che righe così calate nel nostro tempo – e ancor di più nell’Italia di oggi – siano state scritte quasi sessant’anni fa. E altrettanto incredibile pare il fatto che Harper Lee non abbia pubblicato altri romanzi nella sua vita, a eccezione del discusso Va’ e metti una sentinella, che riprende alcuni personaggi del suo capolavoro ed è stato pubblicato solo nel 2015. Il romanzo era stato pensato e scritto precedentemente ma mai editato.
Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?
Ma di cosa parla Il buio oltre la siepe e, soprattutto, perché una storia ambientata in Alabama immediatamente dopo la Grande Depressione del 1929, parla in realtà tanto di noi? La seconda domanda in particolare è piuttosto inquietante, ma proviamo a partire dalla trama.
Il romanzo intreccia essenzialmente due fili narrativi: il mistero di Boo Radley e il processo a Tom Robinson. In entrambi i casi Harper Lee usa le storie per denunciare la paura del diverso, così attuale negli Usa del 1960 e purtroppo in tutto l’occidente dei giorni nostri.
A narrare le vicende una bambina di sei anni all’inizio e che ne compirà nove nell’arco narrativo. La piccola Scout, incrocio tra Huckleberry Finn e Il giovane Holden, narra in prima persona le vicende di trent’anni prima (quindi a parlare è lei da adulta).
Il modo colloquiale di scrivere della Lee risente molto della lezione di Salinger, forse il più importante scrittore americano del novecento, ma anche dell’amico e collaboratore Truman Capote. Scout vede il mondo con gli occhi di una bambina, narrando le piccole marachelle di tutti i giorni assieme al fratello maggiore Jem e al piccolo corteggiatore Dill. Scopriamo attraverso la sua narrazione i personaggi che popolano la piccola Maycomb: dalle vicine di casa divise tra torte di mele e bigottismo di paese, al fantomatico Boo Radley – vicino di casa segregato da anni senza uscire – dallo sceriffo che non è in grado di sparare nemmeno a un cane rabbioso ma che, al momento giusto, rivelerà la sua saggezza, ai tanti personaggi di contorno. Ma la vera figura che rimarrà nella storia della letteratura è il padre di Scout, Atticus Finch. Il personaggio di Finch andrebbe studiato nelle scuole; avvocato di paese, vedovo che nonostante il lavoro riesce sempre a trovare tempo per i figli, è talmente permeato dei più sani valori che non ha bisogno di insegnarli ai figli: basta che loro osservino il suo comportamento. Ed è così che Scout trova del tutto naturale – nell’Alabama degli anni ’30 – accompagnare la domestica di colore Calpurnia alla messa nel quartiere nero. Oppure farsi spiegare dalla vicina di casa Maudie perché A volte fa più male la Bibbia in mano a un uomo qualunque, che una bottiglia di whiskey in mano a… a tuo padre, per esempio.
Altrettanto importante nell’economia della storia è tuttavia proprio il tema del razzismo. La discriminazione era all’epoca un fatto puro e semplice. La posizione di subordinazione dei neri non era mai messa in discussione. Così, quando Atticus si trova tra le mani un processo per stupro a carico di Tom Robinson, operaio di colore, la miccia si innesca.
Atticus sa che neppure la prova più lampante dell’innocenza di Robinson potrà evitare all’uomo la condanna e a lui una sconfitta in tribunale e il biasimo dei concittadini. Eppure accetta senza meno la difesa di Tom.
“Vuoi dire che se non difendi quell’uomo, Jem e io potremmo non darti più retta?”
“Più o meno.”
“Perché?”
“Perché non potrei più pretenderlo da voi. Vedi Scout, a un avvocato succede almeno una volta nella sua carriera, proprio per la natura del suo lavoro, che un caso abbia ripercussione diretta sulla sua vita. Evidentemente è venuta la mia volta. Può darsi che a scuola tu senta parlare male di questa faccenda, ma se vuoi aiutarmi devi fare una cosa sola: tenere la testa alta e le mani a posto. Non badare a quello che ti dicono, non diventare il loro bersaglio. Cerca di batterti col cervello e non con i pugni, una volta tanto… È una buona testa, la tua, anche se è dura a imparare!”
“Atticus, vinceremo la causa?”
“No, tesoro.”
“Ma allora, perché…”
“Non è una buona ragione non cercare di vincere sol perché si è battuti in partenza,” disse Atticus.
Dialoghi come questi, semplici e asciutti, ma al tempo stesso carichi di significato, fanno amare i due personaggi principali.
Non vi stiamo a raccontare per filo e per segno le fasi del processo; in fondo, pur non essendo davanti a un procedural thriller, le pagine ambientate in tribunale vibrano per l’attesa della sentenza e fanno sorridere amaramente per certe situazioni surreali.
Harper Lee saprà riunire nel finale i due fili narrativi e, quando il lettore avrà quasi dimenticato l’esistenza del misterioso Boo Radley, l’uomo apparirà risolvendo una situazione pericolosa.
Quasi tutti son simpatici, Scout, quando finalmente si riescono a capire – sarà la laconica chiusura con cui Atticus darà l’ennesima lezione alla piccola Scout.
“Prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.”
Harper Lee
In conclusione, Il buio oltre la siepe vanta – come tutti i grandi classici – una serie di piani narrativi: romanzo di formazione ma al tempo stesso denuncia universale contro ogni discriminazione: Quando sarai grande vedrai tutti i giorni uomini bianchi che ingannano i neri; ma voglio dirti una cosa, e non dimenticarla mai: se un bianco fa una cosa simile a un nero, chiunque egli sia, per quanto sia ricco o appartenga alla migliore famiglia, quel bianco è un disgraziato.
Ma, e questo Harper Lee non poteva saperlo, la storia ci offre anche alcuni strumenti per affrontare la realtà di oggi.
Quando Calpurnia dice a Scout Non è necessario sfoggiare bravura, non è signorile; e poi alla gente non piace vedersi attorno persone che ne sanno più di loro: li irrita. Non riuscirai mai a cambiare le persone limitandoti a parlare bene, bisogna che siano loro a desiderare di imparare; se non lo desiderano, non puoi far niente: non ti resta che tenere la bocca chiusa o parlare come loro sembra quasi tracciare un vademecum su come rispondere ai commenti di Facebook, o quando Atticus arringa la figlia dicendo Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda sembra quasi voler prendere le distanze da quella società che impone il modello del vincente a ogni costo e che ancora oggi fa così tanti danni.
Chiudiamo ricordando l’efficace – e quasi contemporanea, è del 1962 – versione cinematografica, in cui Gregory Peck diventa un credibilissimo Atticus Finch e una citazione musicale per i palati più fini: quei Boo Radleys che passarono quasi inosservati nell’ondata brit pop di fine anni ’90, ma che hanno saputo ritagliarsi un piccolo spazio tra le band cult di fine millennio.
Tutta
la gente pensa di avere ragione e che tu abbia torto…”
“Hanno il diritto di pensarlo e hanno il diritto di far rispettare la loro
opinione,” disse Atticus, “ma prima di vivere con gli altri, bisogna
che viva con me stesso: la coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi
al volere della maggioranza.
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