È uscito da pochi mesi l’ultimo libro di Gilda Policastro, La parte di Malvasia (edito da La nave di Teseo e tra i finalisti del Premio Viareggio-Rèpaci) e ha fatto subito parlare di sé. Posizionato dai librai nella sezione gialli, la fascetta non lascia spazio a dubbi: “Un’altra sfumatura del nero, per una scrittura affilata e acuta come un coltello nel cuore” afferma Maurizio de Giovanni.
E infatti il lettore che inizia a leggere viene a sapere di una donna dal nome che è tutto un programma, Malvasia, appunto, che viene ritrovata morta. Di questa donna, poi, nessuno sa niente: arrivata da non si sa dove, non ha mai allacciato rapporti con gli abitanti del paese. Come lo schema stilistico vorrebbe, un maresciallo e il suo assistente – Arena e Gippo – iniziano ad indagare, pensando sulle prime a un delitto passionale.
Fin qui tutto bene per il lettore amante di noir, ma il lettore che legge Policastro – già insospettito dalla scelta del genere – non la beve, e non a torto. Le testimonianze, gli interrogatori degli indagati e le ipotesi sull’omicidio iniziano a susseguirsi in un onirico vortice che tutto confonde, tanto da capire a fatica – oppure non capire affatto – chi stia dicendo cosa, per via del continuo flusso di coscienza delirante. Allora tutto diventa confuso, tutto si disfa, le voci risuonano in sincronia, tutte ruotano attorno al lettore, che cerca di afferrarle e collocarle nel posto giusto, come si farebbe con i pezzi di un puzzle o le tessere di un mosaico.
Ci riesce? Direi di no, perché pure quando al lettore sembra di aver trovato un indizio buono, quella certezza viene lambita, attraversata e prontamente smentita la pagina successiva. Tutto può essere il contrario di tutto:
La letteratura è una bugia, la più grande bugia che l’uomo ha inventato.
La parte di Malvasia, pagg. 189-190
scrive Policastro a un certo punto e sembra dire a chi legge: stai attento, resta vigile, non fidarti, non assopirti, l’inganno è sempre dietro l’angolo, ed è sempre difficile capire chi finge:
Nei romanzi di mio zio ci sono sempre questi uomini che non amano le donne. Ma non era tuo zio per finta. Abbiamo detto solo bugie. E come faccio a sapere se sono effettivamente bugie, una che dice di voler sentire solo bugie mente anche in quel caso.
La parte di Malvasia, pagg. 191
Servirebbe anche per le bugie qualche safe words (che nel libro, guarda caso, consistono nei nomi propri) che stabilisca la loro immediata cessazione una volta per tutte per capire chi ha ucciso la donna, Malvasia, di cui nel frattempo il lettore si è pure un po’ dimenticato perché il focus si è spostato su altro.
Ecco, le prime domande del lettore – chi è Malvasia? Chi l’ha uccisa? – sono ormai inutili. Cosa deve fare allora a quel punto? Smetterla. Smetterla di ragionare secondo gli schemi della letteratura di genere, smetterla di volere un colpevole a tutti i costi. E dopo: soffermarsi sulla natura del testo, capire il perché le cose al suo interno non stiano andando come si aspetterebbe, mettere in crisi le sue certezze, i suoi dogmi letterari.
Fare altrimenti non si può perché La parte di Malvasia è un libro vivo, che sta tra le mani con difficoltà, sfugge. E inganna. Ma ingannando denuncia l’inganno stesso e automaticamente si rivela un libro onesto; cioè che se proprio la verità non esiste, almeno è vera la dichiarazione della sua inesistenza. Ultima domanda del lettore (e di Gippo): qual è la parte di Malvasia in tutto questo? Lo scoprirete leggendo. Forse.
Ultimissima domanda del lettore: che libro è La parte di Malvasia? Molti l’hanno definito un giallo non-giallo. Ma un giallo non è, semmai è un anti-giallo. L’elemento fondamentale del genere – il delitto, presunto poi – fa solamente da cornice a un testo che è fluido e che arriva ad assomigliare a volte a un trattato filosofico sulla vita e sulla morte, altre volte a un saggio sulla metanarrazione.
Di sicuro è un libro che disorienta, stordisce, scuote il lettore dal torpore della narrativa che asseconda, compiace, accarezza. È un libro che assomiglia alla realtà, dove un colpevole non sempre si trova e per morire non servono motivazioni per forza. C’è una frase famosa di Emil Cioran, tratta da Squartamento, che recita così: “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo”. Siete pronti a farvi ferire?
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