The Dropout è un podcast d’inchiesta sull’incredibile storia di Elizabeth Holmes, protagonista di uno dei più grandi scandali della storia americana. La sua storia ci offre uno spunto di riflessione sulla società e sulla cultura nordarmericana e ci invita a riconsiderare i grandi pilastri su cui gli Stati Uniti si fondano.
La scorsa settimana sono stata ossessionata da una storia che ho ascoltato mentre andavo in treno da Colonia, dove vivo, a Wuppertal per una conferenza. La storia la raccontava in tre puntate Matteo Bordone, il giornalista autore del podcast Tienimi Bordone (che, per inciso, potete ascoltare gratuitamente sull’app de Il Post e le altre piattaforme fino al 15 ottobre). Bordone mi ha tenuta così bene compagnia durante il viaggio, che ho deciso di approfondire la questione ascoltando il podcast della ABC, citato anche da Bordone, The Dropout e che si può ascoltare gratuitamente su Spotify e altre piattaforme anche dall’Italia.
Chi è Elizabeth Holmes
La storia in questione è realmente accaduta, anzi, potremmo dire che sta ancora accadendo, e sta anche per diventare una mini-serie tv per la piattaforma VOD Hulu, con Amanda Seyfried nel ruolo della protagonista, Elizabeth Holmes.
Holmes, classe 1984, è stata una tra le più osannate e allo stesso tempo condannate imprenditrici americane degli ultimi quindici anni. È l’artefice di una truffa senza precedenti nell’industria della tecnologia sanitaria di alto livello, una truffa portata avanti attraverso la sua azienda Theranos (crasi di therapy e diagnosis) che si vantava di poter democratizzare il sistema sanitario americano, fornendo analisi del sangue accurate e veloci con il semplice e indolore prelievo di una sola goccia di sangue.
Quella di Theranos è stata da subito una promessa di rivoluzione accolta con entusiasmo – e cospicui investimenti – dalle personalità più in vista della società americana: Holmes ha ricevuto per anni il sostegno di personaggi come Bill Clinton e Harry Kissinger ed è apparsa sulle copertine di Forbes, Fortune, Inc.
La bolla Theranos è scoppiata poi nel 2015, quando tra inchieste giornalistiche e whistleblowers, cioè testimoni in incognito che avevano lavorato nell’azienda e avevano visto e vissuto ciò che accadeva, la società è fallita e la businesswoman più acclamata del momento è stata accusata di frode subendo un processo nel 2018. Theranos non era mai stata in grado di produrre analisi del sangue accurate con una goccia di sangue; non aveva mai avuto macchinari rivoluzionari come quelli che vantava nelle pubblicità e nelle interviste rilasciate da Holmes, insomma era stata una meravigliosa fiaba americana.
Questi i fatti in breve e vi rimando ai due podcast per approfondirli.
Quello su cui vorrei concentrarmi è il fascino indiscutibile di questa vicenda e come vi contribuisce il podcast di ABC.
Com’è costruito The Dropout
The Dropout era inizialmente formato da sei puntate di circa quaranta minuti alle quali si sono aggiunte periodiche puntate di aggiornamento – l’ultima il 21 settembre di quest’anno. Ha una sigla accattivante, così come sexy e misteriosa è la voce della bravissima reporter Rebecca Jarvis, autrice del podcast. La prima puntata, che si chiama “Myth-making” – la creazione del mito – comincia con la registrazione del primo interrogatorio a Holmes, seguita da svariati aneddoti sull’infanzia e l’adolescenza di questa bambina prodigio. Elizabeth sembra davvero il prodotto perfetto della migliore società americana. A sette anni ha disegnato una macchina del tempo ricca di dettagli. Più avanti le è stato chiesto: “Cosa vuoi diventare da grande?” e lei ha risposto senza esitazione “Miliardaria!” “Ma non vorresti essere presidente degli Stati Uniti?” “No – risponde di nuovo lei candidamente – perché il presidente vorrà sposare me quando sarò miliardaria”.
Per ottenere queste informazioni, Jarvis e la sua squadra hanno intervistato amici di famiglia, vecchie amiche del liceo, il suo insegnante di matematica del liceo, e altri lontani parenti e amici, che hanno contribuito così a dipingere il ritratto di una ragazza che avrebbe avuto successo nella vita, che avrebbe fatto qualcosa di grandioso.
Self-made (wo)man
Tuttavia, sono altri due i momenti che mi hanno davvero catturato e ai quali continuo a pensare. Il primo è il ritaglio di un’intervista di Bill Clinton a Elizabeth Holmes del 2015 che viene più volte mandata nelle varie puntate della trasmissione. Clinton dice: “Hai fondato quest’azienda dodici anni fa. Di’ loro quanti anni avevi”. Una timida Holmes risponde, “Avevo diciannove anni”. La sala esplode in un applauso scrosciante e Clinton interrompe l’applauso dicendo: “Dunque, non preoccupatevi per il futuro. Siamo in buone mani”.
You founded this company twelve years ago. Tell ‘em how old you were.
I was nineteen
So, don’t worry about the future, we’re in good hands.
Ancora oggi, se guardate tra i commenti, ci sono persone in visibilio per questa parte dell’intervista. Holmes è andata a Stanford e dopo due soli semestri di studio ha lasciato l’università – da qui il soprannome di dropout, “quella che ha lasciato” – e ha costruito la sua impresa. Ecco l’idea tanto cara alla società americana del self-made man portata all’estremo: non ho neanche più bisogno dell’università per cambiare il mondo della sanità. Faccio tutto da sola. E si può fare. L’idea del self-made man, dell’uomo che si è fatto da solo, è una dei capisaldi della cultura americana. Il primo self-made man per eccellenza è addirittura uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Benjamin Franklin.
La trama è semplice: un uomo, o una donna in questo caso, che con la sua sola forza di volontà e con una disciplina estrema – e alla disciplina ci arriviamo tra poco – riesce ad avere successo nella vita, quel successo che ti rende degno di essere parte della società americana. Elizabeth Holmes è partita già avvantaggiata e da una condizione economico-famigliare favorevole – e vi invito di nuovo ad ascoltare il podcast, questa volta quello di Bordone, per capire l’importanza della sua famiglia e della sua condizione sociale. Tuttavia, è lei stessa, assieme ai media naturalmente, a costruire la sua storia sulla trama convenzionale del from rags to riches, dalle stalle alle stelle, come i suoi migliori predecessori, letterari e non.
Come in Il grande Gatbsy di F.S. Fitzgerald, Jay Gatsby è l’uomo fatto da sé, che non chiede niente a nessuno e arriva a diventare l’uomo che a New York tutti voglio conoscere, se non addirittura essere, così Holmes attira le attenzioni di tutti coloro che le gravitano attorno, per come si è costruita il suo personaggio, ispirandosi anche a un altro self-made man per eccellenza: Steve Jobs (notate come nelle sue apparizioni pubbliche veste sempre maglie nere a collo alto e come nelle interviste il suo tono di voce si sia gradualmente abbassato fino a imitare in modo inquietante la voce di Jobs).
L’etica calvinista del lavoro
Ma c’è un altro dettaglio che Elizabeth Holmes ha in comune con Jay Gatbsy: in un’altra intervista che viene spesso mandata nel podcast della ABC, Holmes risponde alla domanda “Ma non guardi mai la tv?” così: “Io non ho una tv a casa: lavoro dal momento in cui mi sveglio all’attimo prima in cui vado a dormire”. Anche qui il pubblico impazzisce e scoppia in un lunghissimo applauso. Ecco, l’esempio che stavamo cercando. Ecco, come si realizza il sogno americano: vivi per lavorare e avrai successo nella vita.
La concezione del lavoro come fonte di indipendenza, dignità e successo è un altro dei pilastri della società americana ed è strettamente legato alla questione del self-made man: l’etica del lavoro calvinista è stata portata e trasmessa di generazione in generazione sin dai puritani che, partiti dal Regno Unito, fondarono le prime colonie americane. Vedere questo mito di fondazione ripetersi anche nella società contemporanea con figure come Jobs e Holmes, dà agli americani stessi, un senso di appartenenza e giustifica ai loro occhi, in qualche modo, le politiche quasi prive di sussidi e sostegni a chi non riesce a costruirsi una carriera negli Stati Uniti. Se non trovi lavoro, è colpa tua; se vieni licenziato, è colpa tua; se ti ammali e non puoi lavorare, è colpa tua e così via.
L’etica calvinista del lavoro è illustrata splendidamente nel finale de Il grande Gatsby. Dopo la morte di Gatsby, Nick trova su un vecchio libro di Jay una commovente lista di buoni propositi che Jay stesso aveva scritto per sé stesso prima di diventare il grande Gatsby. La lista è sia una rigida routine di lavoro e sport, con sveglia alle sei ed esercizi di posa, conversazione e atteggiamenti (ricordate Elizabeth che cerca di emulare Jobs col lupetto e la voce bassa?), sia un insieme di regole da rispettare – non fumare, mettere da parte tre dollari a settimana – per riuscire a migliorarsi, a realizzare il sogno americano.
La trama del grande romanzo americano
The Dropout mi ha ricordato cosa mi affascina e allo stesso tempo mi inquieta della cultura statunitense. In letteratura nordamericana, si parla spesso del grande romanzo americano, The Great American Novel o GAN. Per uno stato così giovane che si è distaccato dalla vecchia Europa, la mancanza di un’identità da ritrovare in pilastri culturali come la musica, l’arte, il cinema, si è tradotta in una ricerca spasmodica del romanzo che potesse al meglio mostrare al mondo cosa significa essere un cittadino degli Stati Uniti, cosa sono gli Stati Uniti.
Nei secoli, diversi romanzi sono stati così indicati dalla critica e dall’opinione pubblica – per primo, La capanna dello zio Tom di Harriet B. Stowe – Il grande Gatsby è uno di quelli, e quando penso a Gatsby, alla sua luce verde, alle sue feste sfavillanti e alla sua tragica fine non posso non essere d’accordo. Non si è mai arrivati a istituire un premio, o a indicare un unico Grande romanzo americano con la G maiuscola. Ogni epoca, dalla fondazione a oggi, ha avuto il suo grande romanzo.
Ma se penso alla storia di Elizabeth Holmes e del podcast che la vede protagonista, penso a un grande romanzo americano dei nostri giorni. Nel corso delle varie puntate, quei due estratti di interviste di cui ho parlato poco sopra, vengono mandati più volte: inizialmente, quando si parla di Holmes come la donna di successo che tutti vogliono avere o essere per dimostrarne la straordinaria disciplina e determinazione. Poi, a mano a mano che i nodi vengono al pettine, quegli stessi estratti, vengono utilizzati per lo scopo inverso: andiamo, chi è che lavora senza sosta? Chi è che non possiede un televisore al giorno d’oggi? Solo una matta lascerebbe una delle migliori università americane per mettere su un’impresa dopo soli due semestri di studio.
La stessa storia, quindi, raccontata con gli stessi mezzi, ci viene offerta da due prospettive uguali e opposte, come un moderno Giano bifronte: chi è Elizabeth Holmes? La wunderkind che incarna il sogno americano o l’impostore malato, i cui sintomi si potevano intravedere già dalle sue prime interviste? Holmes è entrambe e nessuna delle due facce della medaglia: è il sogno americano di successo, è Jay Gatsby che organizza le sue feste sfarzose attirando mezza New York a East Egg, ma è anche una ragazza che si è trovata fagocitata dalla pressione del sogno americano di successo e le sue feste sfarzose le si sono sgretolate addosso come sabbia.
Quella di Elizabeth Holmes è, insomma, la trama del grande romanzo americano che si ripete: un cittadino o una cittadina americana cerca di guadagnarsi la sua identità, sottoponendosi a un’estenuante disciplina guidata e ispirata da chi prima di loro ha raggiunto il successo. Nel loro percorso, la pressione di perfezione e l’isolazionismo, condizione necessaria per raggiungere il successo, costringono il protagonista o la protagonista a sporcarsi, a scendere a compromessi disdicevoli e a fallire. La stessa società che poco prima li aveva osannati, ora li condanna e li abbandona. Resta solo tanta solitudine e la disillusione del sogno americano che evapora fino a scomparire.
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