Venerdì 24 aprile 2020. Il mondo della musica decide di andarci giù pesante e, improvvisamente, il panorama delle nuove uscite musicali si affolla nel giro di poche ore (recuperando, in parte, l’apatico 2019). Tra le tante tre nomi di tutto rispetto, del calibro di Katatonia, Trivium e Dance Gavin Dance. E proprio l’eclettico quintetto progressive from Sacramento è quello di cui andremo a parlare dopo essere tornato sulle scene con il nono album in studio: Afterburner (Rise Records).
La band fondata da Will Swan (chitarra) e Matt Mingus (batteria) nell’ormai lontanissimo 2005, anche con questa nuova uscita continua a fare quello che ha sempre fatto: quello che gli pare
Già, perché se vi sono band nel periodo contemporaneo costantemente affini al dinamismo, alla sperimentazione e al cambiamento, i Dance Gavin Dance sono senza ombra di dubbio tra di esse.
Come già nei precedenti lavori, a trionfare ancora una volta è la brevitas della forma canzone nella sua veste più ridotta, una soluzione che sempre più musicisti nei panorami più sperimentali e progressivi stanno iniziando ad adottare dopo più di un ventennio dedicato, spesso, a fughe musicali dai minutaggi di grande respiro.
Una forma canzone, quella dei Dance Gavin Dance, che si pone come strumento ideale per un genere musicale che punta sul dinamismo e sulla “rapidità”, con pezzi letteralmente da “one shot” che, durante la loro di produzione (mai oltre i quattro minuti e mezzo) sono in grado di proporre i diversi volti musicali del complesso, riuscendo in un buon miscellaneo di differenti sonorità servite con la rapidità e digeribilità di un antipasto.
Le venature core e math, sempre presenti grazie ad un riffing lampo spesso tecnico e articolato unito a linee vocali estremamente “harsh”, anche con Afterburner vanno ad impattare costantemente con scelte più pop, melodiche o groovy, spesso, imprevedibili
Basti pensare all’eclettica Calentamiento Global, dove mathcore e reggaeton riescono a convivere con inaspettata armonia all’interno di quattro strettissimi minuti di canzone. Potrebbe essere la canzone da spiaggia per i metallari dell’estate 2020, ma forse il coronavirus non la pensa allo stesso modo.
Se vogliamo parlare di scelte singolari non possiamo non citare, ugualmente, la closing Into The Sunset, che partendo con un romantico 6/4 da rimorchio in stile anni 80/90 va poi a confondersi con delle inaspettate sonorità elettro/hip hop (quasi trap) dando vita ad uno strano cerbero di cui non avremmo mai immaginato l’esistenza.
Tra pezzi dalla natura decisamente più rabbiosa come Nothing Shamefull, Say Hi e Night Sway, e composizioni portatrici del DNA più classico della band come la carismatica Prisoner (uno dei momenti di punta dell’album), o Lyrics Lie, i Dance Gavin Dance danno vita ad un album variegato e ricco di spunti, colorato e dove l’ispirazione colta da differenti sonorità, talvolta agli antipodi tra di esse, riesce a sintetizzarsi in una personalità musicale ben precisa garantendo canzoni dalla natura estremamente dinamica e allo stesso tempo coerente.
Non tutto è, però, rosa e fiori. Di fatto, nonostante l’indubbia maestria del complesso dimostrata canzone dopo canzone, Afterburner pecca decisamente in fruibilità “top to bottom”
La personalità musicale estremamente eclettica dei Dance Gavin Dance va ad intrecciarsi su sé stessa, dando a tutto il lavoro un grande senso di ripetitività e ridondanza, dove mancano vere e proprie vette o punti di “depressione”, rendendo l’ascolto generale troppo omogeneo, piuttosto monotono e, alla lunga, stucchevole e stancante.
Niente da dire sulle prestazioni dei singoli, dove ancora una volta la voce pulita di Tillian Pearson spicca mettendo, e va detto, spesso in ombra le harsh voice di Jon Mess (alle volte davvero non necessarie). Non bastano però qualità tecniche al di fuori di ogni lecito dubbio e un’idea estremamente originale di uno stile eclettico e mirato verso l’unico per rendere un intero album estremamente godibile.
Con Afterburner ci ritroviamo di fronte ad una raccolta di buone (talvolta ottime) canzoni, efficacissime prese singolarmente ma incapaci, nel loro insieme, di creare un rollercoaster emotivo e sonoro efficace nel trascorrere della riproduzione
Il risultato è quindi, nella sua visione globale, piuttosto piatto e ripetitivo, cosa apparentemente in contraddizione con la natura estremamente eclettica delle singole tracce. Nonostante i molti differenti spunti, l’idea generale data da ogni canzone è sempre la stessa. L’eccessiva dinamica a lungo andare diventa un difetto, la forma canzone ristretta mozza le gambe alla diversità e la rapidità di cambiamento spiazza, riducendo tutto ad un calderone di ottime idee a lungo andare però pesanti da digerire e, in parte, autoreferenziali e fine a sé stesse.
Il troppo, alle volte, stroppia e non dobbiamo dimenticarcelo. I Dance Gavin Dance ci hanno abituato a pensare la musica in un modo spesso unico, facendone letteralmente banchetto senza regole ma, nonostante un complessivo buon risultato garantito dalla giusta fusione tra tecnica, imprevedibilità e quell’orecchiabilità pop ormai sempre più presente nelle nuove uscite del panorama metal e limitrofo, una simile libertà alle volte non basta per stupire ed il rischio è proprio quell’attorcigliarsi su se stessi che porta l’ascoltatore a trovarsi di fronte ad una buona collection di canzoni invece che ad un ottimo e godibile album.
Nonostante ciò, ovviamente, sempre lode sia a chi ha il coraggio di osare e sperimentare e, su questo, i D.G.D, non deludono mai.
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2 commenti su “Dance Gavin Dance – Afterburner: “osare troppo” non sempre significa “osare bene””
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