Interessante realtà musicale proveniente dagli USA, i Toothgrinder sono arrivati al loro terzo album, I AM, prodotto dalla Spinefarm Records. Il titolo è già una diretta dichiarazione degli artisti, scritto tutto in maiuscolo: è un’affermazione di identità, il tentativo di farsi sentire all’interno della società, decretando a squarciagola la propria esistenza. I AM infatti è una frase che, come ci suggeriscono gli stessi Toothgrinder, copre molteplici significati. Un’affermazione, una dichiarazione, un desiderio di descrivere quel che si è. E quest’album indica una sorta di percorso evolutivo nel processo di autoidentificazione.
All of my life I have felt out of place, left out, a ghost, a phantom, a whisper in a sea of noise.
La ricerca interiore, si sa, è estremamente difficile. Spesso si trascorre una vita intera a cercare di capire veramente chi siamo, senza riuscirci. E chissà se qualcuno ci è davvero riuscito. E questo è il percorso indicato da I AM dei Toothgrinder. Un percorso ricco di ostacoli, carico di rabbia, timido eppure sfrontato, come i cinque membri del quintetto americano. Inoltre, questo è il terzo album del gruppo, e il terzo tradizionalmente è l’album dell’affermazione di una band che ha trovato il suo percorso.
Come affrontare tutte queste dinamiche interiori sotto forma di musica? Diciamo che I AM ci prova, parzialmente ci riesce e a livello produttivo è qualitativamente un bell’album. Tuttavia, la sua riuscita in questa missione complicata è solo parziale. Si tratta di un album rapido, inferiore ai quaranta minuti, e dove nessuna canzone ne copre cinque. Il repertorio è quindi veloce, scattante e a tratti molto coinvolgente. I Toothgrinder si dilettano a mescolare sonorità contemporanee con altre dal sapore più vintage. Il riffing effettivamente guarda molto indietro negli anni, sia nel suono che nelle idee.
Ma il sound che scaturisce invece è molto moderno, grazie soprattutto ai particolari tappeti di sintetizzatori e alla splendida voce di Justin Matthews. Il vocalist infatti offre una gamma di possibilità canore tipiche di questa decade, alternando parti morbide e calde ad altre più acute e talvolta harsh. La sua eterogeneità perciò consente alla band di svariare sul fronte dei generi, passando da un hard rock old school al metalcore e al djent più vicini a noi. Spicca tra l’altro in alcuni casi un approccio rock del djent, alleggerendolo dei tratti più violenti, ma conservando il groove e le sonorità tipiche del genere.
Attraverso i sintetizzatori invece I AM dei Toothgrinder acquisisce ulteriori punti sul piano della composizione e dell’arrangiamento.
Tra l’altro questo è un espediente che facilita le incursioni nel pop, rendendo anche più catchy i vari brani del disco. Provare per credere, soprattutto con My Favourite Hurt e shiVer. Brani di questo tipo in particolare ricordano molto i Bring Me The Horizon più recenti, quelli di That’s the Spirit e Amo.
I Toothgrinder riescono quindi in diverse canzoni a offrire spunti interessanti, dando nuova linfa al rock di questo millennio. Sin dall’opener The Silence of a Sleeping WASP si capisce di avere a che fare con qualcosa di differente, qualcosa di potente e coinvolgente già dalle prime note. L’asticella dell’attenzione viene mantenuta alta anche con la successiva ohmymy, cercando subito il brano più ricercato con la già citata My Favourite Hurt. L’approccio da ballad pop chiarisce subito l’ampiezza di vedute della band americana, mostrando anche un tratto maturo e la disponibilità ad aprirsi a più tipi di pubblico e a diversi stati d’animo.
Tuttavia, sono presenti, e non in piccole dosi, diversi colpi a vuoto. Canzoni come no Tribe, no surrender in The House Of Leaves e The Fire Of June sono l’esempio di una mancata realizzazione di quanto era nell’immaginazione degli artisti. Si intuisce effettivamente dove volessero andare a parare, con critiche più o meno velate a vari agenti della realtà e della vita. Ma la resa musicale è insufficiente, in quanto i brani mancano di quel quid esplosivo necessario, rasentando addirittura la noia. E per un album che punta tutto sulla velocità del proprio repertorio non è una buona cosa.
In realtà sembra quasi che una parte del disco sia stata fatta attraverso un percorso riflettuto, soppesato, coerente con le intenzioni e le aspirazioni, e l’altra sia stata realizzata in tutta fretta per riempire la tracklist e raggiungere una durata minima accettabile. Nonostante una certa compattezza a livello di suono e di produzione, I AM non è un album riuscito. Le prove di forza di brani come la titletrack o anche The New Punk Rock vengono smorzate completamente dai passi falsi come too soft for the scene, TOO MEAN FOR THE GREEN.
Alla fine si ha un risultato quasi di parità tra canzoni più riuscite e altre meno, deludendo un po’ le aspettative dell’ascoltatore.
Nulla cancella comunque il fatto che i Toothgrinder abbiano tentato, e continuano a tentare, di percorrere una strada musicalmente complessa, interessante, intrigante.
Bisogna “solo” migliorare il tiro delle canzoni, perché le carte in regole ci sono tutte. E chissà che nei prossimi anni non saranno proprio loro a fare scuola e a indicare la nuova rotta musicale…
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