Jim Morrison, breve storia di King Lizard

| | , ,

L’otto dicembre Jim Morrison avrebbe compiuto settantasette anni. È davvero difficile immaginare come sarebbe oggi King Lizard.

Sì, perché Jim più di tanti altri è entrato nell’immaginario rock proprio per la sua immagine di giovane uomo, bellissimo e pieno di carisma. Un fascino quasi malato il suo, che continua a quasi cinquant’anni dalla morte, a fare leva sulle nuove generazioni.

I Doors sono infatti uno dei culti del rock vintage più duri a morire. Una discografia di sei album e altrettanti anni di carriera sono valsi alla band di Venice Beach, California, un posto nell’immortalità. Il mitico viso di Jim Morrison continua a osservarci dalle t-shirt e dagli adesivi sul retro delle auto. Forse solo Che Guevara vanta altrettanta forza iconica. Il web, paradossalmente, ha tolto un po’ di spinta propulsiva al mito, rendendolo fin troppo a portata di mano.

Jim_Morrison_primo_piano

E forse è proprio l’aura di leggenda che rischia di togliere spazio all’importanza dei Doors nella storia del rock e del suo periodo aureo. Il pericolo è di ricordare più il Jim Morrison provocatore che non le grandi innovazioni di una band rivoluzionaria per attitudine e tecnica.

Proprio la tecnica, per cominciare; l’assenza del basso, per esempio, non era certo cosa scontata per un gruppo rock del 1965. Eppure proprio le linee di basso tracciate dall’organo di Ray Manzarek erano il marchio di fabbrica del loro sound grezzo, derivante dal blues ma non avulso da pulsioni più classiche e strutturate. Linee di basso che spesso era impossibile replicare col basso elettrico vero e proprio. Questo al netto del fatto – dimostrato – che spesso in studio qualche bassista fu reclutato dalla band.

La chitarra di Robbie Krieger, sempre un passo indietro, era suonata con misurata maestria; a lui si devono geniali intuizioni compositive come Light My Fire.

La batteria di John Densmore garantiva sempre il giusto tiro ritmico. Ma la genialità vera e propria emergeva con Jim Morrison.

Infanzia e adolescenza di Jim Morrison erano trascorse spostandosi negli USA a seguito del padre, militare in carriera, senza allacciare significativi rapporti umani e con un’ossessione per i poeti maledetti. Ispirandosi alle Porte della percezione di Aldous Huxley, ribattezzò The Doors il gruppo Rick & The Ravens fondato da Manzarek coi fratelli.

Jim, leader intellettuale della band, decise di far riferimento a un celebre romanzo di Aldous Huxley – The Doors of Perception – all’interno del quale è presente una frase di William Blake: Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è: infinita.

Qual è la chiave del successo? Inventando qualcosa che ancora non c’è. Ed è qui che il genio visionario va contestualizzato.

Siamo in pieno Flower Power, in California, e le band predicano con gentilezza la pace e l’amore, sballandosi il giusto per delirare di fiori e cannoni. Non esiste ancora la figura della rockstar violenta e instabile che dal palco aggredisce, affascina e mette alla prova i suoi stessi fan. Morrison, col suo carisma e fascino maledetto, la inventa e si assicura il mito.

Gli inizi sono trionfali. The Doors, l’album di debutto, fortemente orientato al blues fa però centro con una canzone dal ritornello facile facile, Light My Fire. Strange Days è ritenuto da molti il vertice creativo della band, anche se forse manca un altro singolo così d’impatto. Waiting For The Sun inizia a mostrare qualche punto debole, ma la qualità rimane alta.

Eppure il mito nel 1969 sta già vacillando. È messo a dura prova dalle dipendenze dalla droghe, da crescenti problemi psichici e dal rifugio della mera provocazione, dove Jim si trincera sempre più spesso. In questo clima di ispirazione logora, conflitti interni e pressioni discografiche, che nasce The Soft Parade.

Da sempre il lavoro si porta appresso la poco felice nomea di punto più basso della loro carriera, ed effettivamente non c’è molto da salvare.

Superati per un paio d’anni i deliri psicotici di Morrison, c’è ancora spazio per due dischi degni del mito Doors: Roadhouse Blues e soprattutto L.A. Woman, che segnano il ritorno ad atmosfere più grezze e blues, con pezzi che entreranno nel mito. La stessa Roadhouse Blues e Riders In The Storm, su tutte.

Ma non c’era nulla da fare, la crepa che si era aperta anni prima, fatta di abusi e problemi psichici, ingoierà di lì a poco Morrison e gli stessi Doors, che non riuscirono mai a superare la perdita del carismatico leader.

Nel 1971 Jim Morrison, assieme alla compagna Pamela, si trasferisce a Parigi. È sempre più affascinato dalla parola scritta, probabilmente immagina il suo futuro più come poeta.

In una sempre più inquietante simbiosi con gli amati poeti maledetti francesi, vive in un palazzo del XIX secolo.

Tuttavia è sempre più avviluppato dalla depressione, favorita anche dalle dipendenze mai superate. Il 3 luglio del 1971 è proprio Pamela a trovarlo morto nella vasca da bagno; probabilmente la sua morte è correlata al consumo di droghe, tuttavia l’assenza di un’autopsia e i funerali celebrati prima che il mondo sappia, alimentano le solite, bislacche leggende. Secondo alcuni il re lucertola è ancora vivo. Altri, più fantasiosi e sicuramente poco competenti, inventano una bizzarra teoria secondo cui Jim Morrison si sarebbe trasformato nello smielato cantante Barry Manilow.

Jim va così a implementare un’altra leggenda, quello del club 27, che comprendeva già Jimi Hendrix e Janis Joplin. Tutti morti a 27 anni.

In realtà, dopo la tumulazione al Pere-Lachaise, è che di Jim Morrison rimane l’eredità artistica e quella tangibile, fatta di cimeli e migliaia di appunti scritti. Saranno venduti a peso d’oro anni dopo.

This is the end, my only friend, the end…

Andrea La Rovere
Previous

Cesare 2C2C, il ritorno in grande stile dell’Imperatore Cremonini

Sanremo Giovani, ecco i dieci finalisti

Next
Wordpress Social Share Plugin powered by Ultimatelysocial