Il 27 novembre del 1942 nasceva uno dei personaggi chiave della grande stagione del rock, Jimi Hendrix.
È sempre difficile parlare di un’icona, specie se morta molto giovane. Spesso il mito e i fan stessi ne fanno un santino, privo di caratteristiche negative e talmente in alto sul piedistallo da impedire un’analisi obiettiva.
Dove sarebbe andato Jimi Hendrix se quella notte del 18 settembre del 1970, a Londra, il chitarrista non fosse morto, soffocato dal proprio vomito dopo aver ingerito un’imprecisata quantità di barbiturici? Chissà, forse temperati i furori giovanili sarebbe tornato al blues, con una dignitosa vecchiaia di concerti in stile B. B. King. Oppure avrebbe abbandonato del tutto il rock commerciale, continuando a dettare le linee dell’avanguardia come Miles Davis. O forse sarebbe finito nei guai per qualcuno dei suoi famosi eccessi, magari come James Brown. O ancora, come l’amico Clapton, pacificato in qualche paradiso tropicale, avrebbe dispensato uno scialbo disco di classici natalizi.
Nessuno può dirlo, ma possiamo provare a farci un’idea di ciò che fu Hendrix al di là di un’iconografia che lo dipinge come il genio volato troppo presto a insegnare il blues agli angeli – sic.
Ibrido di almeno tre culture diverse, quella Cherokee, l’afroamericana e quella bianca, James Marshall Hendrix nasce a Seattle in una realtà piuttosto disastrata. Il padre è un autoritario soldato, tanto assente nella sua infanzia quanto sarà presente post mortem, tenendo saldamente le redini e i cordoni del materiale inedito. La madre, donna fragile psicologicamente, muore quando Jimi è ancora un ragazzino.
Sballottato tra il padre e i nonni, Jimi fugge dalla realtà nell’unico modo che gli si presenta: l’ossessione per la chitarra. Quando – probabilmente sempre in fuga dalle oppressive origini – si arruola nei paracadutisti, i commilitoni che lo vedono dormire abbracciato al suo strumento-feticcio lo liquidano come uno che non ha tutte le rotelle a posto.
Jimi Hendrix però va per la sua strada e inizia a suonare in diverse band, oltre che come turnista; suona per Little Richard – uno che a bizzarrie non ha nulla da farsi insegnare – Ike Turner e Sam Cooke. Il ragazzo è gentile, ai limiti della timidezza, ma quando suona la chitarra sembra posseduto da qualche arcaico demone. Fin troppo per essere apprezzato da personaggi con un ego straripante, tanto che le sue esperienze come chitarrista di celebrità finiscono sempre per durare poco.
È Chas Chandler, ex Animals riciclatosi come manager, a notarlo e ad aprirgli la sliding door decisiva.
Lo porta in Inghilterra e il resto è storia conosciuta. Eric Clapton e Pete Townshend, allora i chitarristi più influenti, raccontano di come all’inizio persero il sonno dopo averlo sentito suonare. Poi ne diventano grandi amici.
La cosa non deve stupire, il modo di suonare di Hendrix era complementare a quello cristallino di Clapton e a quello essenzialmente ritmico di Pete.
E, all’epoca, totalmente nuovo. La chitarra di Hendrix è guidata da un disturbo di iperattività, come probabilmente chi la suona. Hendrix è bulimico nei suoni, per lui la divisione tra ritmica e solista è pura teoria; entra e esce dagli accordi per suonare fulminanti passaggi a note singole; porta il feedback allo stato dell’arte e le distorsioni al parossismo. È come se volesse dimostrare tutto e subito ogni volta che imbraccia la sua Fender.
Ma – e molti fan fraintendono ancora oggi – dietro il modo da circo di suonare, c’è anche un compositore, non sempre dotatissimo, ma estremamente innovativo.
Jimi Hendrix non ha una band e non c’è tempo – in una Swinging London che va sempre a tremila – di trovarne una coi fiocchi. Vengono presi, più per fame che per reale innamoramento artistico, un batterista disoccupato, Mitch Mitchell, e Noel Redding. Quest’ultimo è un chitarrista che non trova ingaggi, ma ha una capigliatura simile a Jimi; gli mettono tra le mani un basso elettrico e 15 sterline alla settimana. Nasce la Jimi Hendrix Experience, una band che registrerà tre dischi. Il primo, eponimo, è un vero manuale di chitarra elettrica che passa in scioltezza dal blues più canonico – Red House – al rock furente – Foxy Lady e Purple Haze, quasi indistinguibili – fino alla psichedelica più spinta.
Qualcosa di simile si è già sentito, ma non in modo così furibondo e sopra le righe.
A temperare il tutto le ballate elettriche, The Wind Cries Mary e Little Wing, nel meno valido sophomore Axis: Bold As Love. Electric Ladyland, appena un anno dopo, è già il testamento artistico della band, con una serie di pezzi che entrano nel mito. In mezzo mettiamoci anche l’esibizione al Monterey Pop Festival e l’anno dopo a Woodstock, e abbiamo un quadro chiaro della velocità con cui le cose accadevano a quel tempo.
Troppa, forse, e Jimi inizia ad andare fuori controllo.
Alcune volte facevamo dell’ottima musica, altre no. – a parlare è Noel Redding – Nessun gruppo era sotto pressione come l’Experience, ma a Jimi non fregava niente di questo. Lui suonava perché gli serviva come respirare.
Il modo improvvisato in cui si approccia alle session fa però storcere il naso a più d’uno. Ascoltiamo ancora Noel: Un giorno eravamo in studio per registrare “Red House”. Era un blues appena scritto da Hendrix e quindi, per entrare meglio nel pezzo, utilizzai al posto del basso una vecchia chitarra elettrica scordata. Registrammo una take di prova e subito Jimi disse: “Ok, buona la prima”. Gli feci subito presente che non c’era il basso, ma lui non ne volle sapere. Era fatto così.
L’Experience ha comunque vita breve, Hendrix dopo due anni appena è già stanco e cerca qualcosa di nuovo: Sono stanco di suonare sempre lo stesso rock furente che faccio da molti anni, ho bisogno di sperimentare nuove idee. Quello che voglio fare in questo momento è sperimentare nuove soluzioni, suonare con musicisti che riescano a stimolarmi.
Con Billy Cox e Buddy Miles dà vita alla Band Of Gypsys, gruppo all black che vorrebbe riconsegnare il rock ai neri, come sarebbe pure giusto.
Il nome lo dà Mitchell, che occasionalmente suonava ancora con Jimi, in un albergo di New York, dove la band secondo lui sembrava una fottutissima banda di zingari.
Anche questo progetto ha vita breve, il tempo di lasciare un ricordo indelebile in Bill Graham del Fillmore: Quella sera Jimi diede la più grande dimostrazione di virtuosismo chitarristico che abbia mai visto. Un’ora e mezza di musica ipnotica senza cadute di tensione. Non mi è più capitato di assistere a un simile spettacolo.
Nello stesso tempo però Jimi è sempre più insofferente. Gli eccessi da rockstar lo spediscono in gattabuia più di una volta; in Svezia dopo aver distrutto la camera d’albergo, altre volte per reati legati alla droga. Troppe.
In studio è sempre più velleitario e incontrollabile. Ricorda Carlos Santana: Stavo eseguendo alcune sovra incisioni quando a un tratto Jimi iniziò a suonare per conto suo. Ci guardammo l’uno con l’altro fino a quando Chandler non ordinò di andarlo a prendere. Lo staccarono letteralmente dagli amplificatori e a prima vista mi sembrava che fosse in preda a una crisi epilettica. Aveva gli occhi rossi e sbarrati, era completamente fuori di sé.
Il 28 gennaio del ’70, a New York ancora con i Gypsys, non riesce a completare il live; la dose di LSD era di qualità troppo scarsa.
A settembre la tragedia. Chandler liquidò laconicamente una tragedia che era nell’aria: Doveva succedere prima o poi.
A cinquant’anni da quella meteora che attraversò troppo velocemente i cieli del rock, rimangono un pugno di capolavori, da Hey Joe a Purple Haze, uno stuolo di imitatori che ne replica solo gli aspetti più vacui e circensi e un rock che non esiste più. Tramontato come l’era dell’acquario su cui la sua morte – e quella di altre star come Joplin e Morrison – pose la pietra tombale.
E le parole di Billy Cox: Ci sono persone che diventano famose e vengono date in pasto al pubblico. Poi ci sono pochi eletti capaci di entrare in sintonia con l’universo tanto da risultare influenti pur senza essere visibili. Questa è l’immortalità e Jimi è immortale. Il mondo deve ancora assimilare il genio di Jimi, un fanciullo dell’universo, un maestro della chitarra, un’anima intensa e gentile.
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