The Absence of Presence, Kansas: recensione

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The Absence of Presence è il nuovo album dei Kansas, leggendaria band prog americana, che segue The Prelude Implicit del 2016 di cui mantiene la formazione. E’ in uscita in luglio 2020 per Century Media/InsideOut, anticipato dal singolo Throwing Mountains.

Sono poche le band che possono vantare la continuità realizzativa ed il prestigio dei Kansas: altrettanto poche l’elevata qualità della pubblicazione – basti ricordare l’ultimo album di inediti dei Genesis, Calling all Station, orfani di Phil Collins, che sì, è il migliore della triade finale, ma suona un po’ come The Rise of Skywalker in una saga sostanzialmente orrenda.

Ecco, i Kansas non hanno mai toccato gli abissi di sudiciume musicale presentati con orgoglio da guida turistica dei Genesis, ma indubbiamente hanno avuto i loro momenti no: Power, del 1986, lo ricordiamo ancora con un certo affetto, come il brutto anatroccolo che mai è divenuto cigno, come il cucciolo storpio della nidiata.

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L’America attuale è differente, radicalmente, da quella che vissero i Kansas, agli albori della loro carriera, nei tardi anni ’60. La musica di Leftoverture (leggi qui la nostra recensione), gloriosa, epica, maestosa, era figlia di un positivismo diffuso, di una tensione verso le frontiera che ancora permaneva in quegli anni verdi.
The Absence of Presence vede una formazione conservata, ma i cui equilibri sembrano essere lievemente mutati. I Kansas sono la principale prog band americana, da cui tutte discendono: i primi sperimentatori del pop misto al prog, i primi inni indimenticabili – da Carry on Wayward Son a Point of Know Return, con la sua Dust in the Wind -, i primi violini eletti a strumento principale.
Ora, però, quegli anni non esistono più. Cosa si ritrova di quell’antica gloria, che ci riporta ad una psiche differente, ad uno zeitgeist differente?

Indubbiamente, in The Absence of Presence, c’è neoclassicismo.

Come gli architetti, i musici, che, nel tardo ‘700, cercano di riportare in auge l’algida, fine, semplice, lineare, bellezza, dell’arte dell’assolata Grecia, nell’album dei Kansas troviamo stilemi, strumenti – Hammond su tutto – che echeggiano di vintage, nel tentativo di imitare quello che avrebbe potuto essere un classico moderno.

Video semplice e stupendo, che scalda il cuore. Trasuda di voglia di fare ed entusiasmo da parte di musicisti così attempati.


Maestosità c’è nella lunghissima suite iniziale omonima, The Absence of Presence, che, parzialmente delicata e parzialmente molleggiante, lascia andare la voce dell’eterno Ronnie Platt, che risulta sorprendente ben intonato da The Prelude Implicit; si nota dall’incipit l’intrusività delle tastiere di Tom Brislin, uno che ha lavorato con certi Yes e Meat Loaf, che creano un tappeto sonoro fatto di delicati contrappunti e arpeggi eterei. Il brano successivo, nonché singolo, Throwing Mountains, risulta energico nell’impatto da arena e inno – la tensione al Carry On è rimasta – ma notiamo una differenza dal passato, e anche dal precedente album: un basso finalmente presente e indispensabile, ad impreziosire e fornire profondità al suono – Greer ha trovato il modo di farsi rispettare. Il violino di Ragsdale, altro membro quasi fisso della band, viene lasciato alle porzioni soliste e forse utilizzato fin troppo poco; va rintracciato un enorme lavoro compositivo da parte di Ehart, che si agita come un ragazzino dietro alle pelli, e di Zak Rizvi, che ragazzino musicalmente invece è, ma che crea un suono profondo, caldo e pieno, nella sua chitarra poco distorta – il che è un bene, e che ben si abbina all’ariosità del brano.
Dopo un cotanto incipit, The Absence of Presence potrebbe sembrare, davvero, uno dei migliori album prog del 2020: purtroppo, vi preannuncio, non proseguirà su livelli così elevati.
Ma scadrà in una certa palude della noia – ecco, quegli abissi poppettari che la guida turistica di Kansas city indica con orgoglio.

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Jets Overhead mantiene il sound Kansasiano fatto di grandissime aperture e violini impazziti – con un certo gusto per le liriche profetiche:

One last shot at our redemption, will we pass the test?

There’s more than we’ve been shown,
the stakes are much higher in ways I can’t understand


Ancora, Propulsion 1, strumentale che è molto più del compitino e che live ci delizierà (se e quando riusciremo ad ammirare i Kansas dal vivo, se, soprattutto, dato l’andamento dei contagi, gli USA non cadranno nell’anarchia), concorre anche a ricordarci che Ehart rappresenta tutto ciò che vorremmo essere da vecchi: ricchi, famosi, appassionati, capaci di divertirci come una garage band.
Ecco, dov’è la noia? Inizia con una ballad strappalacrime quale Memories Down the Line, riporta in auge sonorità che speravamo essere dimenticate dai tempi di Images & Words, e, che, anzi, è così anni ’80 e così Bryan Adams che fa quasi male al cuore, al fegato, alla cistifellea; mentre Circus of Illusion, che si apre con il canto del violino cui si avvicenda la chitarra solista, ed, ancora, un Ehart in stato di grazia, modernizza il sound dei Kansas, aggiungendo quei guizzi – soprattutto in fase di mixing, che in questo caso fornisce la necessaria ampiezza monumentale al sound, che, precedentemente, meno che nel caso delle prime tracce, appariva claustrofobico – tecnici e soprattutto chitarristici che la rendono uno dei migliori brani di The Absence of Presence.
Ecco, le tastiere sono ben presenti, ma a tratti, in The Absence of Presence, e, facendo un po’ il verso a quei mattacchioni dei The Night Flight Orchestra, i Kansas ci sparano un inno anni ’80 di cui non si sentiva affatto il bisogno: Animals on The Roof, che suona molto da filler – con quel chorus in levare, davvero vintage, davvero pop. Davvero molto AOR d’altri tempi (no, non è vero, i Sonata Arctica invecchiatissimi ci avevano provato con Talviyo) è la ballad Never, che un po’ Asia, un po’ ELO, si trascina con un violinetto ed una linea vocale neanche troppo trascinante. Echi nordici in The Song the River Sang, che, folkeggiando up-tempo, riporta in alto, altissimo, il livello del songwriting; c’è finalmente del dramma – giusto alla fine, che ci è voluto – in The Absence of Presence, che, di emozioni sincere, finora, ne aveva regalate davvero poche – mentre il già angoscioso arpeggio bemolle già qualcosa smuove. Così come la gestione teatrale dei cambi di ritmo e delle section di interludio, regalate in mano ad un Ehart e ad un Williams che, musicalmente, hanno ancora moltissimo da dire. Le dissonanze in outro sono una gioia per orecchie raffinate, e Dio, quanto ne avremmo volute di più.

Ecco, è il momento di tirare le fila.

The Absence of Presence è un ottimo album, ottimamente suonato, registrato, mixato: ma non ha un’anima.

Nulla aggiunge e nulla toglie alla ricca discografia dei Nostri, cosa che non si può dire di un omologo nostrano, Emotional Tattoos della Premiata Forneria Marconi. Sebbene di maturità,in questa nuova formazione, The Absence of Presence vive di pochi guizzi, in un piattume, purtroppo, di già sentito, di deja vu, di antichità.
Di un mondo che non esiste più e i dei ricordi che man mano si sgretolano inesorabilmente.

Giulia Della Pelle
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