How do We Want to Live, Long Distance Calling: recensione

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How do We Want to Live è il nuovo album dei tedeschi Long Distance Calling, in uscita in giugno 2020 per Inside Out ed interamente registrato durante il lockdown.

Avete mai sentito parlare del progetto SETI?

È un progetto ufficiale della NASA, nato neli anni ’70, per la ricerca di intelligenza aliena, da cui l’ovvio acronimo. Si parte dall’assunto che, ad ora, purtroppo, non possedendo tecnologia di viaggio interstellare abbastanza avanzata da visitare altri pianeti, possiamo limitarci a 1)contattare; 2)tentare di rilevare segnali radio e microonde, compresi entro un ben preciso range di frequenze che non sto a spiegarvi, principalmente attorno a stelle simili al Sole – ossia in grado di avere una lunga vita, e un sistema planetario non in blocco mareale – e attorno alle quali viene rilevato lo spettro del carbonio. Questo, in ultima analisi, perché supponiamo, come scienziati – ma è un assunto del tutto probabilistico e che lascia il tempo che trova, in quanto rimaniamo nel ricco regno della speculazione chimica pura – che solamente il Carbonio sia in grado di supportare la vita, e non il suo più massivo analogo, il silicio.

Ora, non so cosa abbia spinto i Long Distance Calling a prendere ad esempio il SETI come loro primaria ispirazione, ma è una scelta che dà adito a innumerevoli declinazioni artistiche, permettendo, con l’assunto di vagare nel campo dello sci-fi, sperimentazioni totalmente avanguardistiche, che sfociano nell’ambient più puro, nella musica colta odierna di Agnes Obel e Constance Demby, strizzando però sempre l’occhio al post rock dei Mogwai e de più crudeli Mono.

Consci del patinato e lucidissimo Boundless, i Long Distance Calling scelgono, questa volta, l’approccio documentaristico: viene scelto, per introdurre Curiosity (una suite divisa in due parti) proprio un lungo monologo sulla curiosità stessa.

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Curiosity is a real bastard. Actually, it’s the drive to adapt to changing circumstances. It fills me with joy to make discoveries every day of things I’ve never seen before. It is a wonderful and astonishing thing…

Da ciò comprendiamo che il nuovo album dei Long Distance Calling, How do We Want to Live, è un inno alla curiosità, ma più professionalmente parlando, alla ricerca scientifica. Che, nell’elettrica storia narrata dall’album, è culminata nella nascita di una vera e propria, evoluta, viva, intelligenza artificiale.

Da subito, How do We Want to Live si inserisce in un solco già ben arato dall’elettronica da soundtrack odierna (leggi qui la nostra rubrica dedicata alle colonne sonore!) – il corpus intero di Stranger Things, Onehothrix, Susanne Sundfor, Carpenter Brut – ma ben declinato col post rock energico che da sempre li contraddistingue; sin da Curiosity le granitiche costruzioni armoniche fatte di synth e chitarra settata su tonalità spaziali appaiono di molte spanni superiori ai precedenti lavori dei Long Distance Calling, recuperando dunque una capacità compositiva che mancava da una decina d’anni almeno. Il perenne uso del palm muting non risulta stucchevole, quanto più d’effetto e narrazione – saliscendi su fibre ottiche riscaldate da flusso d’elettroni.

Se la suite Curiosity era, sostanzialmente, fatta d’accordi maggiori di pace e tranquillità, le cose si complicano con Hazard. Probabilmente, quei curiosissimi scienziati, tanto ispirati da crear la vita, da lasciarsi sommergere dalla stessa potenza della loro creatura, hanno avuto qualche problema di contenimento: un insistente riffing tipicamente post rock, sorretto da una chitarra ritmica di coloritura ed una batteria statica – quasi la paralisi tipica del panico – continua ad alzare il pàthos dell’album, aggiungendo la componente melodica. La voce narrante, peraltro, ci spiega ciò che la musica stessa lasciava supporre: l’avanzamento della tecnologia, e, dunque, della robotica, ha reso la vita al silicio inscindibile da quella al carbonio, e viceversa.

Sorprendentemente, dopo il finale post-metal di Hazard, Voices sembra più da Anderson Paak, Solange, che dei Long Distance Calling: un sincopatissimo ritmo di percussioni e synth futuristici, aggiungendo un vocoder che ci fa tuffare nella stessa atmosfera sci-fi retrò descritta dalla copertina: siamo nell’originale Galactica, in Star Trek, all’interno delle pagine angoscianti di Watchmen – e il Dottor Manhattan ci analizza ai raggi X coi suoi occhi vitrei. La stessa atmosfera marziana si respira nell’elegiaca Fail/Opportunity, che ha fatto suoi i baci di Bear McCreary e dell’ultimo David Bowie. Stelle oscure, circondate da sfere di Dyson maligne, ci appaiono in Immunity, che sfrutta le stelle soluzioni stilistiche di Voices, aggiungendovi però un tipico crescendo post rock che aggiunge pregio e fruibilità ad un lavoro altrimenti piatto e fin troppo EDM; in un lungo viaggio fra superfici curvilinee e dotate di una propria, sebbene lievissima, gravità, assistiamo allo scorrere del tempo e delle molteplici razze in cui l’intelligenza artificiale si è diversificata. La ben più ottimista Sharing Thoughts, che, di nuovo, sfrutta un abbondantissimo ma espressivo palm muting, per la prima volta da inizio album, si muove su binari più dinamici – qualche cambio di ritmo e d’accordo, per il brano migliore in assoluto di How do We Want to Live.

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I Long Distance Calling, sebbene band prettamente strumentale, inseriscono da sempre in ogni album almeno una traccia con vocalist: una volta è Jonas Renkse dei Katatonia (leggi qui l’intervista a Niklas Sandin), una volta – come questa – si tratta di Eric A. Pulverich dei Kyles Tolone, al suo meglio in Beyond Your Limits. Brano drum driven, il sentore retrò/eighties è fortissimo: se non fossi stata poco più di un ovulo all’epoca, potrei dire che ci troviamo all’interno di 2112 dei Rush. Il bellissimo timbro di Pulverich ben si adatta ad una linea vocale espressiva e drammatica, in un ottimo futuro singolo. Dal preludio alla conclusione, rappresentato dalla magistralmente prodotta e mixata True/Negative, si passa poi alla finalissima Ashes: una delle due civiltà – organica e sintetica – è stata annichilita dall’altra, ed è la stessa voce narrante di Curiosity a raccontarcelo. Tutti gli animali, anzi, tutti gli esseri viventi, tendono al raggiungimento di un equilibrio con l’ambiente circostante, in tempi più o meno lunghi: gli umani no. Ci muoviamo in una nuova area, devastandola. Come un virus. Un cancro. Cui l’unica cura è la civiltà artificiale.

Sebbene adatto ai tempi incostanti, confusi, sospesi, che viviamo, How do We Want to Live risulta peccare, di nuovo, in efficacia, indugiando in una ripetitività ossessiva e a tratti noiosa.

Fra eventi splendidi ed altissimi come la suite iniziale, Beyond Your Limits e Sharing Thoughts, si passa per bassi ridondanti e abissali quali Voices e Immunity; l’ambizione del concept, poi, viene spesso lasciata in secondo piano in brani poco narrativi, frase che, ad un non ascoltatore del post rock, potrebbe sembrare assurda – ma vi assicuro che quattro strumenti e dei synth sanno raccontare anche la Trilogia della Fondazione di Asimov in mani giuste. How do We Want to Live avrebbe potuto essere la colonna sonora della seconda ondata del Covid19, data anche l’azzardata analogia virus-razza umana presente in Ashes, essendo stato registrato durante la prima, in pieno lockdown, ma a quanto pare non sarà così. O lo sarà solo per pochi, eccelsi brani.

Giulia Della Pelle
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