Kvitravn è il nuovo album dei Wardruna, progetto di Einar Selvik, ex componente dei Gorgoroth, che segue all’acustico Skald – out il 22 gennaio per Indie Recordings (Columbia)
Se si parla di Wardruna, si parla di purezza. Una purezza intima, antica, permeante l’intero corpus di lavori di Einar Selvik. Distese di neve, fiordi incontaminati e cieli tersi: non si stenta a credere che il folklore pre-cristiano abbia stentato a decadere, in Norvegia.
Un folklore che Selvik, sin dai tempi del Gorgoroth (che, dal nome, evocavano tutt’altro: Gorgoroth era infatti la fortezza del Beleriand del “Primo Nemico” di Arda, Morgoth, un Valar caduto), ha apprezzato, riscoperto, e reso incredibilmente fruibile. Ciò che i Wardruna hanno fatto col folk scandinavo (ed, in misura minore, Myrkur) forse, in pochi hanno tentato con altri linguaggi musicali dimenticati: un po’ di Barocco nella scena dark cabaret, musica medioevale da parte di Ritchie Blackmore, il Duo Bottasso in Italia, i Naragonia in Belgio, i Gåte in Norvegia stessa… Comunque, purtroppo, espressioni musicali che poco arrivano al grande pubblico.
Selvik decise, ormai undici anni fa, di rivoluzionare questa tendenza: vi fu la trilogia delle rune, composta da Gap var Ginnunga, Yggdrasil, e Ragnarok, e, infine, l’eccezionale Skald – solo voce e antichi strumenti acustici da scaldo, come il violino norvegese e il kraviklyre. Un viaggio in un tempo dimenticato, in cui gli dei camminavano con gli uomini: una cultura, se si vuole, autoreferenziale, ma per questo profonda e affascinante, in quanto incontaminata e incapace di contaminare perché legata ad una specifica, piccola, ristretta, regione geografica.
Kvitravn è il corvo bianco, ed è la title track e singolo del nuovo album dei Wardruna: dopo l’esperienza di Skald, le capacità vocali di Selvik hanno subito un netto miglioramento, e, possiamo tranquillamente assurgerlo nel novero dei migliori vocalist contemporanei – evocativo, dolcissimo, ipnotico. Una voce virile e al contempo che sa di muschio, verde tappeto di boschi uggiosi, di ghiacciai che muoiono nel mare. Lindy Fay-Hella ne è controcanto, una voce altrettanto potente, ma gelida e melodiosa, in un brano che è suonato con tagelharpe e idiofoni – ossa che schioccano.
Il corvo bianco – e altre creature sacre, psicopompi, in grado di connettere il mondo dei morti con quello dei vivi – è al centro di Kvitravn, il nuovo album dei Wardruna.
Che è, invece, aperto da Synkverv, intensa ballad flauto e percussioni che sfiora delicatamente un mondo interiore atavico e pre – civile che tutti possediamo, un passaggio che si apre quando lasciamo la voce fluire libera; tecnicamente, il crescendo nell’ending, col raddoppio di percussioni, è quanto di più prog espresso dai Wardruna. Prog: progresso, novità, ascesa artistica. Che, in questo caso, significa ritorno al passato, a sonorità tradizionali cui l’orecchio iperdinamico di un ascoltatore del ventunesimo secolo non è più abituato. Niente virtuosismi neanche in Skugge, che, vento e tempesta dei fiordi, inizia con un corno che precede un coro (di dubbing della voce di Selvik, la cui modulazione vocale è eccezionale) – Skugge, le ombre. Le ombre che si avvicinano al letto del morituro, che si annidano negli angoli, ed il canto funebre che viene intonato, solo cori tradizionali e percussioni idiofone, è ipnotico, riflessivo, ma mai esasperante. Perché in ogni brano di questo album è nascosta una gemma, una sorpresa – una piccola variazione di accordo, uno strumento in più, un vocalizzo, che movimenta, scuote acque immobili. Il flauto di Viseveiding, i cori di Kvit Hjort.
Come ho già detto, gli orecchi moderni non sono abituati alla musica dei Wardruna che, nella sua unicità, funziona meravigliosamente. I distanti ululati che aprono Grà (grigio), e la virile voce di Selvik, che proviene dagli anfratti in cui la storia si è paludata in un lago, schiudono frontiere ataviche che gli umani moderni hanno dimenticato: un mondo naturale, nuovo, in cui l’artificiale era raro, difficile da conquistare, e, a suo modo, geniale. Geniale è dunque la reinvenzione artistica dell’intero corpus di musica tradizionale scandinava da parte dei Wardruna, una tradizione antichissima che affonda le radici nei popoli pre-vichingi e rimasta sostanzialmente pura; composta di sequenze di accordi semplici, maggiori, diesis, e diminuiti, come in Fylgjutal e di ritmi dispari – evocativa, complessa, trascendente, funzionale.
Soprattutto, ciò che la musica di Kvitravn, rispetto ai precedenti album dei Wardruna, riesce a trasmettere, è la grandiosità: la semplice immanenza eterna di un falò nel bosco, la meccanochimica in atto per accenderlo; misteri mai svelati e verità da celare. La conoscenza ancestrale, elitaria, di Munin. Gli antichi suoni di battaglia di Kvit hjort – corno e percussioni e tappeto sonoro di fiati, brano più dinamico dell’intero Kvitravn. E, la crudele semplicità di Nin (Nove).
Kvitravn si chiude in ascensione emotiva con Vindavlarljod (Canzone della stirpe del vento), una vera e propria tempesta nordica, e con i tuoni di Andvevarljod (Canzone dei tessitori dello spirito), che ospita i cantanti tradizionali norvegesi Kirsten Bråten Berg, Sigrid Berg, Unni Løvlid and Ingebjørg Reinholdt. Due brani che esplorano il sottile legame fra l’anima ed il vento che spira fra i monti e sulle lande, ugualmente mobile, labile, in grado di perdurare un’eternità, fecondare la terra con i semi, o distruggere la civiltà.
Annuncio della morte, oscurità, buio, ombre che si allungano, e, infine, l’eredità naturale a chi resta. Questo è Kvitravn, l’album finora più raffinato dei Wardruna, un lavoro non per tutti, non destinato a tutti, ma che scorre cristallino come un torrente che sgorga da un ghiacciaio, acqua antica e preziosa.
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