Maere è il quinto album degli Harakiri for the Sky, duo post-metal austriaco, uscito in febbraio 2021 per AOP records.
La peculiare violenza, sottesa, alla musica proposta dagli Harakiri for the Sky mi ha sempre incuriosito. Sebbene non abusando mai degli stilemi tipici del black metal, la band viennese ha saputo costruire suite inquietanti e sempre di altissimo livello compositivo e lirico. Senza spoiler, possiamo dire che forse Maere è lo zenith della carriera degli austriaci. Dunque, sarebbe pretenzioso dare una semplice recensione: non possiamo che parlare di Maere, descrivendone pregi e difetti (pochi) in modo oggettivo.
La parola nightmare, inglese per “incubo”, deriva dalla credenza che i brutti sogni venissero causati dai “mare”, demonietti del folklore nordico che siedono sul petto del dormiente, causando dunque i terribili viaggi notturni. Di ciò parla Maere, nuovo capitolo per il duo degli Harakiri for the Sky.
La intro I, Pallbearer è incredibilmente leggera, un brano squisitamente post rock se non fosse per il sofferto scream di JJ – che possiede un’espressività rara nel genere. L’evoluzione del brano è quasi stoner, emozionante e fortemente scenica. Lieve e delicatissima, un soffione nel vento, parte la successiva Sing for the Damage We’ve Done, che si avvale, stavolta, di una doppia cassa che rende ottima l sezione ritmica del brano, ricco di contrappunti, pause improvvise ed accelerazioni. Lo stesso format è ripetuto in Us Against December Skies che, però, aggiunge disperazione alle note stiracchiate di una power ballad.
La forza di Maere sta nella trama e nell’ordito dei suoi brani. Che è ipnotica, ripetitiva, ma che subisce, con l’andamento narrativo del brano, un’evoluzione minima, ma funzionale: a ciò si accosta la produzione ed il mixing assolutamente perfetto – si pensi al basso rotondo e avvolgente, metallico, di And Oceans Between Us. E dell’eccellente ritmo – che fa sì che il brano parta in medias res – di Three Empty Words.
Maere è, come ho detto finora, un album ipnotico. Scorre senza problemi per la sua ora e mezza, e ci si ritrova a riascoltarlo più volte nella stessa giornata – dunque, la curiosità avanza. Ci si ritrova a leggerne i testi, che appaiono, subito, curatissimi:
You know some men can’t be negotiated or reasoned with
Cause some of ‘em just want to watch the world burn
That’s why I’ll never rise from the ashes, my dear
Cause I am them, I’m the whole fucking fire
I know we must have our hearts broken sometimes
Cause having them broken also means
We tried for something
I know a ship’s safe in a harbour
But that’s not what it’s built for
We must get broken sometimes
Cause that is how the light gets in
Sebbene difficile da cogliere, Maere – gli incubi, quelle creature che si afflosciano sul tuo petto mentre dormi – tratta dell’oscurità auto-generata nell’umano: quell’oscurità che cerchi di scacciare, di illuminare, con una luce, purtroppo, spesso fallace e fasulla – quella delle dipendenze. Maere tratta del raggiungimento del punto più basso, il minimo assoluto nello spettro energetico dell’essere umano: l’incubo più potente da sconfiggere, per svegliarsi, ed essere abbagliati dalla luce calda del giorno.
C’è un ospite di eccellenza in Maere: il vocalist dei Gaerea, band portoghese promettentissima quanto ignorata. Ed è presente in forse il brano migliore del platter, Silver needle/Golden Dawn – quello del risveglio. Ed il trauma, del risveglio, dell’astinenza – l’anelare, nonostante tutto, a quella sensazione di devastazione e distruzione, che, mancando, lascia solo un luminosissimo vuoto. Un brano straziante, una chitarra distorta che narra di solitudine e dolore, di un amore perduto da spleen decadente, con numerosi cambi di accordo ed una dinamica affascinante.
In my dreams you are min all the time
The hands that used to hold me
I always wanted to see your name in lights
Just in the case we’ll never meet again
But in my dreams, you were min all the time
And as they see us they’ll confess
“They died doing something they wanted to
In a place they chose to be”
Time is a Ghost (per finta) traccia finale, parte come una delicata ballad acustica, ed elogio alla resa, la resa al tempo che corre inesorabile. Tutti quei sorsi di whiskey, quelle sniffate, l’oceano umido dell’incoscienza – tutto dimenticato. Tutto confuso in un liquido interconnesso, quantico, di ricordi nebbiosi.
I still got fire inside
But my heart is too cold
I lost something I never had
But yet it hurts as bad
Cause those who were seen dancing
Were thought to be insane
By those who could not hear the music
Who couldn’t hear the silence sing
Maere è dedicato alle persone troppo fragili, o, forse, eccezionali nella loro sensibilità, che creano i loro mostri e se ne lasciano distruggere – e nessuno, nessuno, nessuno, di quelli che additano, è disposto davvero a tendere una mano: il degno finale è dunque Song to Say Goodbye dei Placebo.
Vi ricordate il videoclip, di Song to Say Goodbye? Un mini-film, un bambino di una decina d’anni che si occupava sotto ogni aspetto del padre in stato catatonico, un guscio vuoto, e che, infine, accompagna in una casa di cura in mezzo ai boschi e agli alberi – guidando in auto, senza neppure riuscire ad arrivare allo sterzo e a guardare sopra di esso. C’è speranza, in un brano simile? C’è possibilità di redenzione, i cocci sono abbastanza grandi per essere visti e raccolti? Maere non fornisce risposta.
In sostanza, il songwriting degli Harakiri for the Sky si conferma eccezionale. Maere è un album emozionante, un saliscendi colorato e mai noioso fra gli abissi dell’animo umano e le sue vette più alte. Un solo appunto: forse, lo scream, ragazzi, sta passando di moda. Per un’ulteriore fruibilità, l’utilizzo di voce pulita potrebbe far sì che gli Harakiri for the Sky raggiungano la fama di band post metal ben più note – cosa che mi auguro fortemente. Forse inferiore, di qualche millimetro – in un’ideale e oziosa scala della bellezza musicale – ad Arson, Maere è, invece, un album che sa, che odore, di casa. È intimo: proprio in quelle trame avvolgenti e al contempo furiose – sincere. Un disco da ascoltare e riascoltare, un compagno per la solitudine.
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Ottima recensione!!! Complimenti. Un solo appunto : A MIO PARERE lo scream va benissimo così anzi.!!! Altro che passato di moda!?, È fondamentale per veicolare le turgide, decadenti e disperate melodie rabbiose del duo austriaco.
Ciao!
Grazie per il complimento, apprezzatissimo da un amante degli In Flames :). In molti la pensano come te: però appunto si tratta di gusti personalissimi, e visti i temi intimistici trattati dagli HFTS, credo che loro possano solo apprezzare la diversità di vedute!