Dopo due anni dal precedente e omonimo album, i Lamb of God ci regalano un’altra perla della loro potentissima discografia: Omens.
La band è di quelle che non necessita presentazioni tra gli addetti ai lavori, ma per chi non li conoscesse si può dire che si tratti di una delle band Metal attuali con la maggior carica di groove, il tutto senza abusare eccessivamente nel mondo dei generi più estremi in circolazione (Djent su tutti), limitandosi, se così si può dire, a realizzare brani ben piantati su un solido riffing, una sezione ritmica granitica e un vocalist fenomenale.
Il risultato di questi componenti micidiali è l’album più rabbioso realizzato dalla band, come il gruppo stesso ha affermato in alcune sue dichiarazioni.
A dimostrarlo è già la partenza di Nevermore, opener basata su una struttura terzinata e su un riffing parente stretto dello stile dei Meshuggah. La compattezza del sound è solida fin dalle primissime battute ed è subito chiaro che con Omens si scapoccia dall’inizio alla fine.
Alza ulteriormente il tiro il successivo Vanishing. Il contesto si fa più cupo, appesantito da profonde campane e da un lontano pad di sottofondo, mentre il ritmo si fa più veloce e la voce di Randall Blythe si fa ancora più abrasiva cantando il ritornello, quella sola e devastante parola: Vanishing! Il legame poi tra la coppia di chitarristi con Mark Morton e Willie Adler e il duo ritmico John Campbell al basso e Art Cruz alla batteria rendono questo brano una perla nera da vivere assolutamente nei prossimi live.
I toni si fanno meno cupi e apocalittici con To The Grave, un titolo che sa molto di giovanile sprezzo per la morte e tutto ciò che la rappresenta, la tomba in primis. Difatti anche il sound del brano è un po’ più old style e il tono di fondo sembra meno esistenziale della precedente canzone, rendendolo un ottimo brano alla Set To Fail: cattivo, groovy, lineare quanto basta per far scatenare il pubblico. La successiva Ditch gioca molto di più su cambi di ritmo e velocità, mantenendo comunque il tono “leggero” di To The Grave. Da capogiro lo special a metà canzone, dove una melodia ansiogena di chitarra si scontra con il resto del comparto ritmico impegnato in un riffing deathcore che non lascia scampo.
Si arriva quindi alla title track. Omens si muove su una ritmica più lenta, puntando molto di più sul groove piuttosto che sulla velocità dei riff, anche se non mancheranno alcune schitarrate estremamente serrate. Ma del resto, come il titolo suggerisce, è il ritornello il punto in cui si focalizzerà la nostra attenzione, ipnotizzati a urlare a squarciagola Omens!
Scavalcata la metà dell’album ci si trova di fronte a Gomorrah, canzone che per certi aspetti riprende i toni più cupi e drammatici già sperimentati in Vanishing. Qui molte delle atmosfere tetre sono rese dalle sonorità orientaleggianti, arpeggi sabbiosi, pieni di polvere e fuoco, mentre riff serpentini scorrono lungo i manici delle chitarre, avvolgendoci e soffocandoci sempre più, battuta per battuta.
Con Ill Designs si ripropone uno schema di canzoni simile per certi aspetti a Omens e Ditch, giocando molto sui ritmi e sulle velocità: in particolare il drumming di Cruz alterna sezioni rapide e killer ad altre più lente e groovy.
Grayscale, ultima canzone ad essere stata composta e registrata per il disco, addirittura non doveva farne parte: è stata aggiunta a prodotto quasi concluso su indicazione del produttore Josh Wilbur, secondo quanto afferma il chitarrista e compositore Willie Adler. Si sente effettivamente un mood leggermente differente dalle altre canzoni, con sonorità e soluzioni musicali finora inedite all’interno di Omens: i “fischioni” di chitarra alla Judas Priest durante i ritornelli sono effettivamente una bella trovata, che potenzia ulteriormente una canzone che risulta ancora più pesante in un album già parecchio intenso.
Neanche il tempo di iniziare che è già finita: è la velocissima Denial Mechanism. Vengono le vertigini anche solo a pensare di eseguire una cover di questa canzone, tanto sono serrate le parti di ogni strumento. Poco più di due minuti e mezzo di delirio totale, quanto basta per condurci all’ultimo capitolo di questa poderosa uscita discografica.
September Song offre l’intro più elaborata di tutto il disco, degna apertura della canzone più lunga e, volendo, più sentimentale di Omens. Un’apertura cupa e sofferta di questo tipo spinge il sound al di qua dell’Oceano Atlantico, verso le coste scandinave, con vaghi accenni a quanto proposto da band come Dark Tranquillity e connazionali. Al netto di strofe dal riffing pesante e rozzo, il ritornello con i trilli depressi aumenta il carico emotivo del brano, eguagliando i picchi già raggiunti da Vanishing e offrendo uno dei brani migliori dell’album. La lunga sezione strumentale è un trascinarsi sofferto della canzone, retta da un riff quasi black folk, sostenuto da una sezione ritmica solida e ruvida, mentre un lontano synth accenna una melodia lontana e quasi commossa. Gli ultimi istanti sono un inno corale, sofferente, deciso, fino alla conclusione, puntuale e senza fronzoli, di tutto il disco.
In conclusione, Omens è un degno album dei Lamb of God, degnamente prodotto dalla Nuclear Blast. È un album cattivo dall’inizio alla fine, come deve essere un album dei Lamb of God, rimanendo sempre costante e coerente con quanto prospettato fin dalla copertina. La durata è anche particolarmente azzeccata, una quarantina di minuti è più che sufficiente per un disco che non si concede neanche un momento di riposo, una ballad, un interludio di sorta che consenta alla band e all’ascoltatore una piccola pausa. Difatti, aggiungere materiale avrebbe esclusivamente appesantito la tracklist senza offrire molto di più rispetto a quanto già proposto.
La band è solida e compatta, precisa e pulita in ogni attimo dell’esecuzione. In un repertorio così ritmicamente complesso è soprattutto il drumming di Art Cruz a farsi notare, riprendendo il ruolo che era del suo storico predecessore Chris Adler. Ma le esecuzioni della coppia di chitarristi Mark Morton e Willie Adler sono un altro gioiello di Omens. Sempre sul pezzo, seppur con meno libertà rispetto ai suoi colleghi, è il bassista John Campbell, un po’ schiacciato da un lato dal riffing delle chitarre e dall’altro dal virtuosismo tecnico della batteria, ma non per questo il suo lavoro va sminuito: se la tenuta delle parti ritmiche è solida è merito suo. Infine la voce di Randall Blythe è un inconfondibile marchio di fabbrica, assolutamente perfetto per il genere e per il repertorio della band.
All’interno di una tracklist quindi molto coerente e simile a se stessa, brillano come diamanti gli esperimenti di Vanishing, Gomorrah e September Song. Sono state molto interessanti le sperimentazioni della prima e della terza di queste canzoni: i Lamb of God potrebbero tranquillamente spaziare su tematiche più cupe e drammatiche, meno americane e più nordeuropee, senza sfigurare assolutamente e potrebbe essere un interessante elemento aggiuntivo al loro già invidiabile arsenale. Chissà…
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