Gli Opeth sono tornati e fanno la voce grossa. The Last Will and Testament, fuori il 22 novembre per Reigning Phoenix Music, l’ultima fatica di Åkerfeldt e soci, scava nei cuori degli appassionati e li butta in un turbinio di emozioni come fino a Watershed avevano saputo fare.
ph: Terhi Ylimäinen
Dopo il nulla cosmico, torna il growl di Åkerfeldt e, come direbbe Alex De Large “tutti i più malenchi peli del mio intero plott si drizzarono dall’emozione”.
Ma il motivo di tanta eccitazione non è soltanto risentire quella bellissima voce. Anzi, il motivo principale è dato dal fatto che, innanzitutto, The Last Will and Testament è un concept album. Ma non è uno di quelli narcisi, che si guarda allo specchio e dice “guarda quanto sono complesso e bello”. Qui siamo su un altro piano. Dei familiari si riuniscono per la lettura del testamento del vecchio patriarca, ma ogni canzone tira fuori un segreto che ingigantisce la storia. E’ una matrioska, una concatenazione di eventi guidati dalla musica. Le tracce sono 8, con le prime 7 che sono senza nome. Solo l’ultima ha un titolo, una scelta che si capirà alla fine dell’esperienza.
Si parte subito a bomba in The Last Will and Testament con la traccia numero uno. Si sentono gli echi dei Dream Theater, con gli Opeth che scopiazzano alcuni riff di Images and Words e li fanno loro. Il momento più emozionante arriva però alla fine della canzone, quando la melodia di un’orchestra (che potrebbe fondersi bene con delle scene di Braveheart) accompagna l’ascoltatore alla traccia numero due. Non è un caso che in questo album gli Opeth abbiano utilizzato un’orchestra dal vivo. La seconda canzone, come direbbe Andreotti, “è un’altra storia”. Åkerfeldt fa quello che sa fare meglio, ovvero passare dai brutali momenti di death metal ad attimi di angelica memoria. Il ritmo è cadenzato, con il progressive che si impossessa della band. Primo fra tutti il tastierista, Joakim Svalberg, che deve fare gli straordinari per stare dietro ai cambi di passo (un chiaro esempio a metà della canzone).
Mentre nella traccia tre c’è un ritorno dell’orchestra, che si fonde alla grande con la chitarra (attenzione, qui c’è il primo assolo) e la voce della band, nella quarta canzone l’inizio è uno shock. Più battente bandiera araba che svedese, la traccia si evolve dopo circa 2 minuti. Prima un’arpa sconvolgente per quanto è bella, poi il flauto di mister Ian Anderson. L’icona dei Jethro Tull regala un assolo e contribuisce alla creazione di quella che potrebbe essere una futura pietra miliare del genere. La quinta traccia di The Last Will and Testament si regge sulla batteria di Waltteri Väyrynen. L’ex Paradise Lost e Bodom After Midnight dimostra perché si trova qua. Jazz, Blues, Folk, Rock. C’è un po’ di Ian Paice e Max Roach negli appunti di Väyrynen. Secondo me si è divertito parecchio durante le fasi di registrazione (pensate con i live). Se volete capire quanto gli Opeth siano cambiati, aprite bene le orecchie dal minuto numero 5. Tolti i primi 25 secondi, con un orripilante tintinnio simile a una canzoncina di Natale, inizia un intermezzo “tranquillo” da parte di Åkerfeldt. Nel 1996 questa sezione della canzone si sarebbe risolta con la chitarra acustica ad accompagnare il nostro amatissimo (vedi Morningrise). Qui la situazione è nettamente diversa. Personalmente, preferisco più il modus operandi di 28 anni fa, ma la voglia di continuare a evolversi e sorprendere sovrasta il giudizio.
La sei, dopo i primi due minuti, è prog allo stato puro. Si capisce che l’album sta andando verso l’epilogo, quindi la band punta alla melanconia pinkfloydiana e prosegue verso la canzone numero 7, facendo la stessa identica cosa. Qui gli Opeth hanno preso le sonorità delle canzoni più cupe di The Wall e le hanno riassemblate. Si apre così la strada verso la traccia finale, A story never told. Anche qua, Roger Waters sarebbe contento del risultato. Ma al contrario delle precedenti due tracce, questa riesce a colpire. Se chiudo gli occhi, percepisco che ci troviamo davanti all’epilogo dell’album. Gli Opeth danno tutto, soprattutto alla chitarra. Le lacrime si mischiano al grido delle corde, lasciando spazio solo a due parole. Ben fatto.
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