Diaspora è il secondo album di Udde, cantautore sassarese, che è in realtà il suo esordio ritardato di fin troppi anni: è uscito il 19 aprile 2024 per PNR.
Pubblicare un esordio dieci anni dopo la sua composizione: è ciò che Udde, cantautore di Sassari. Dopo che altri album sono stati pubblicati, come The Familiar Stranger del 2017. Ecco, Diaspora è un album sospeso: un mutamento continuo, un campo infinito in cui neve, bucaneve, erba pioniera e fiori primaverili, si avvicendano a ritmo accelerato; una nave, che appare sospesa nel ghiaccio artico, bloccata in un presente che muta ma che è immutabile. Allora, nella poetica di Diaspora, l’estinto elefante europeo diviene un filo di Arianna spezzato, l’immanente che, seppur assurdo, si ritrova a non essere più. Eppure, non è una tragedia, per Udde: il cataclisma – la diaspora – si svolge con apparente pace, lisergica pace, e scivola lentamente su un pendio leggermente scosceso, disfacendosi tutto con grazia. Udde canta quasi da vaudeville, va in over-acting continuamente, distorce la propria voce e la trasmuta: diviene altro da sé.
Chi è questo cantautore sardo, che vive però in Grecia? Non si sa molto della sua vita, poiché lascia che siano i suoi brani a parlare per lui. Già AHO è un brano che gioca sulla necessità del volere un qualcuno – di amato – accanto, ma il non volerlo ferire: il dilemma del porcospino. E, come tutto Diaspora, è una mini opera-esistenzialista che si gioca, però, su synth complessi, voce eterea e fortemente lavorata; con scelte d’accordi e frasi musicali piuttosto ardite e, vien da sé, inusuali per la musica nel nostro paese – ma, ricorda, maggiormente, le dichiarate ispirazioni di Udde, fra cui Wendy Carlos e l’intera scena pop barocca statunitense.
Allora scusami
Se soffro di narcolessia del sentimento
Elefante Europeo, l’animale simbolo della diaspora forzata e, infine, dell’estinzione, è il secondo brano di Diaspora, e suona come una lullaby inquietante, un divertissement per bambini adulti che giocano col DNA, coi confini, coi semi. Luci è, invece, un brano – contrariamente a ciò che Udde stesso dichiara – un brano di più facile fruizione nonché un singolo: più Spaceman che anni ’80, dipinge una città ectoplasmatica che circonda un uomo solo – incastrato nella sua personale diaspora da se stesso. Il tema dello shift, della migrazione, è ripreso nella bella ballad Transumanza, che è un’altra reinterpretazione di un tipico scioglilingua per bambini – sulla cui musica, però, Udde enumera, sarcasticamente, una serie di leit-motif dei media italiani. Maggiormente dinamica è Come Stai, drammatica e corale, neofolk a là Scott Walker, che fa da introduzione a Ostile: i The Birthday Massacre incontrano il pop italiano, ma i synth di Udde sono sporchi, distorti, volutamente rovinati. Dalla Sardegna ci si sposta poi alla costa adriatica con la punta di diamante di Diaspora, Il Trieste: come il batiscafo Trieste, che riposa oltreoceano, ci si posa sonnolenti sul fondo della fossa della Marianne. Psichedelia abissale, i cui suoni appaiono filtrati da una superficie acquosa, che ne fa eco, che li ammorbidisce ed ovatta. Da Ostile ci si sposta a Ho Stile, altro interludio, che fa da apertura a Dove Sei, che gioca delicatamente su continue dissonanze e percussioni che divengono melodia in un refrain infinito, in continuo crescendo – la forma canzone è stiracchiata, è difficile da rintracciare, viene quasi ridicolizzata. Anno Scorso, penultimo brano, sembra quasi il sequel di AHO: la relazione dell’autore è oramai condannata, assieme a quei poveretti nei barconi sul mare, così come gli elefanti europei – spariti, tutti, strappati al loro luogo di appartenenza: la dispora emotiva e fisica.
Diaspora si chiude con la bellissima Punto Nemo, fortemente carlosiana: il polo dell’inaccessibilità. L’uomo esce dal suo corpo, e vede il nostro pianeta da fuori: è un alieno, che ne ammira i mari, le nuvole, i prati verdi, le calotte polari, le vette torreggianti. Le piccole formiche – gli umani – che si agitano sulla sua superficie – Ladies and Gentlemen we are floating in space. Eterea e sospesa, Punto Nemo, al fine, col suo dream pop raffinatissimo, non prende posizione: unica decisione, è che, forse, non è così male qui. Non vale la pena fuggire di nuovo. Il narratore si perde nei suoi synth come nei venti del nostro pianeta, come nello scorrere del tempo che lui non però non soffre: è ormai divinità.
La chiusura di Diaspora è dunque eccellente, e sono certa che se il nostro mercato discografico non fosse quella lussureggiante pantomima quale è, l’intero album avrebbe meritato grandissimo successo. Chissà, però: Udde e Daniela Pes, ambedue sardi, ambedue professionisti dei synth, potrebbero aprire una nuova stagione del pop italiano sperimentale. O, almeno, così, il mio cuore in diaspora si augura.
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