Non di sole grandi storie vive il rock. Anzi, spesso è proprio cercando tra le pieghe più nascoste che vengono fuori vicende quasi poetiche, come quella che vi raccontiamo oggi. La storia degli Sfaratthons.
Borrello è un minuscolo borgo abruzzese che, dopo lo spopolamento delle zone rurali del novecento, conta appena poco più di trecento abitanti. Come tanti altri luoghi abruzzesi, a Borrello si respira quella tranquillità e quel modo di vivere tradizionale, all’insegna della lentezza e della solidarietà, ormai sconosciuto in città. Uno di quei posti, per capirci, dove è facile che ancora oggi si lascino le chiavi sulla porta di casa. Unico tesoro noto, le splendide Cascate del Rio Verde, le più alte degli Appennini. Eppure Borrello custodisce anche un’altra piccola magia, quella di una band nata da ragazzi adolescenti negli anni ’70. Siamo alla fine di quel mitico decennio, quando un gruppo di giovanissimi appassionati di musica del piccolo paese teatino decide di dare una forma più compiuta alla loro passione. Cecilio Luciano, Giovanni Di Nunzio, Mario Rosato, Bruno Di Nunzio e Luca Luciano, assieme ad Argentino D’Auro, paroliere del gruppo, partoriscono un’opera rock su tematiche sociali e ambientaliste. La favolosa stagione del rock progressivo italiano è al tramonto, ma gli Sfaratthons decidono di adottarne comunque lo stile; a testimonianza del tutto le partiture e alcune cassette registrate artigianalmente, poi la diaspora e ognuno di quei ragazzi prende la propria via.
Se è vero che non tutte le belle storie hanno un lieto fine, così non è per gli Sfaratthons
Passano quasi quarant’anni e i ragazzi, ormai uomini maturi, iniziano ad accarezzare il sogno di portare a termine la loro opera; complici le moderne tecnologie, registrano, riveduta e corretta, la loro opera, accompagnandola con l’uscita di un libro, curato da D’Auro, che racconta la loro storia. Sono passati altri tre anni da quei giorni e gli Sfaratthons sono tornati nella loro capsula del tempo progressiva per registrare il secondo album: Appunti di viaggio.
Il lavoro percorre le strade più conosciute del rock progressivo. C’è la title track, splendido strumentale che tra cambi di ritmo e cavalcate di flauto ci riporta dritti agli anni ’70; Vela e Cielo Nero sono passaggi più cupi con ampio spazio dato ai sintetizzatori e che ricordano nelle atmosfere l’indimenticato disco dei Museo Rosenbach. Your War, Our War vanta un andamento quasi funk che si fonde con un flauto alla Jethro Tull e un assolo di chitarra vagamente floydiano; notevole anche il testo impegnato. Da segnalare la presenza di alcuni brani cantati in dialetto, scritti da Donato Di Luca, tra cui ricordiamo Vaije con un attacco alla Kashmir dei Led Zeppelin che va poi ad aprirsi ritornello più solare e mediterraneo. Il lavoro si chiude con Trust, il cui ritornello pare addirittura citare il Battiato dei primi anni ’80.
Abbiamo avuto la fortuna di scambiare quattro chiacchiere con il tastierista Luca Di Nunzio, uno dei nuovi innesti della formazione
Ci puoi presentare la band?
“Siamo gli Sfaratthons: Luca Di Nunzio (tastiere e voce), Cecilio Luciano (batteria), Giovanni Di Nunzio (chitarra e voce), Giovanni Casciato (chitarra elettrica), Mario Di Nunzio (basso). Innanzitutto siamo un gruppo di amici, che hanno fatto della musica la loro principale passione; il nostro territorio di appartenenza è il rock, con particolare predilezione verso il genere progressive. La presenza in veste di special guest del flautista internazionale Geoff Warren, ha contribuito ad innalzare di gran lunga il livello dei nostri due dischi e a lui siamo e saremo sempre grati.”
Tu sei una delle nuove leve della band, ma la storia parte da lontano. Come nascono gli Sfaratthons negli anni ’80?
“È come se la band fosse stata concepita una quarantina d’anni fa, per venire al mondo nel 2016, dopo una lunga gestazione. Cecilio Luciano e Giovanni Di Nunzio, insieme ad altri amici, allora teenagers, iniziavano ad affacciarsi al mondo della musica. All’inizio suonavano i più disparati brani pop e rock che il repertorio nazionale ed internazionale proponeva, per poi iniziare a dedicarsi a qualche composizione propria.”
Il nome deriva da una parola dialettale e ha un che di felliniano, vuoi dirci di più?
“Sì, Sfaratthons è una simpatica inglesizzazione del dialettale borrellano (anche se presente con diverse varianti in molti altri posti della regione) sfarattone, ossia il cosiddetto scansafatiche, o anche il ben più nobile vitellone di felliniana memoria.”
La bestia umana era un concept album che si avvaleva dei testi di Argentino D’Auro. Per Appunti di viaggio avete seguito un’altra strada o c’è anche qui un filo conduttore che lega i pezzi?
“Anche il secondo è un concept album, che ha avuto nel viaggio, nelle sue molteplici sfaccettature (sonoro, metaforico, reale, metafisico e visivo), il fil rouge del progetto; per quanto riguarda i testi, oltre alla collaborazione di Argentino D’Auro, ci si è avvalsi del prezioso contributo del poeta e scrittore Donato Di Luca, già autore di testi in vernacolo e in lingua italiana, rappresentati negli ultimi trent’anni in diversi contesti teatrali e musicali, nonché vincitore di svariati premi di poesia dialettale; e sì, perché i testi, in questo nuovo album, sono o in italiano, o in dialetto o in inglese, questa la grande novità.”
Un po’ come nella tradizione prog anni ’70, nei vostri lavori ha grande importanza l’aspetto grafico. Ce ne vuoi parlare?
“Negli anni Settanta, immaginare un capolavoro del Rock Progressive senza una cover accattivante era quasi impossibile. Le copertine dei primi quattro album dei Genesis (da Trespass a Selling England by the Pound), quelle degli Yes, dei primi King Crimson, dei Gentle Giant. Storia di un minuto della PFM o Felona e Sorona delle Orme sono solo alcuni esempi. Beh, noi tutti abbiamo convissuto con le loro musiche e quotidianamente abbiamo osservato e ammirato per ore le loro splendide copertine. Non potevamo, dunque, nei nostri dischi, non riproporre lo splendido connubio tra musica e arte. Tutto ciò è stato possibile grazie alla maestria dell’amico e pittore Luca Luciano, quest’anno presente anche alla Biennale di Venezia, ma già da più di 10 anni affermato artista a livello nazionale ed internazionale. Quanto sia fondamentale l’aspetto visivo e grafico nei nostri lavori è testimoniato dalla scelta di inserire il CD in un booklet fatto di 36 pagine, ricco di dipinti, testi, racconti e credits.”
Ascoltando il lavoro ho colto influenze molto diverse, da miti come i Led Zeppelin e i Jethro Tull a realtà meno famose come il Museo Rosenbach. A quali band in particolare riconoscete un debito artistico?
“Sentirci accostare a tali mostri sacri per noi è motivo di orgoglio e ci incute anche un pochino di timore, le stesse sensazioni provate qualche settimana fa quando da Tokyo, uno dei negozi di dischi locali, ci ha informato che i nostri erano andati sold out in brevissimo tempo. Tutti noi siamo cresciuti con le sonorità di Peter Gabriel e soci, col flauto di Ian Anderson, col moog di Keith Emerson, con le splendide dissonanze di Robert Frip e compagni, però ognuno di noi, poi, viene influenzato da questo o quel gruppo, da questo o quell’artista, non solo degli anni settanta. Se, per esempio, gli Yes e in particolare Chris Squire sono un riferimento costante per il nostro bassista, possiamo dire che Gavin Harrison, Steven Wilson e Neal Morse sono alcuni degli artisti più cari al batterista; io stesso, cresciuto col mito di Rick Wakeman, nel tempo, mi sono immerso nell’elettronica dei Kraftwerk o dei Depeche Mode.”
Raccontaci del Sanremo Rock.
“Poco prima dell’estate il nostro batterista ha inviato una demo online per le selezioni della manifestazione e dopo qualche settimana siamo stati informati circa l’esito positivo. Nel corso dell’inverno saremo chiamati in una delle sedi regionali per esibirci di fronte ad una giuria di esperti. Il tutto era partito un po’ per gioco ed è diventato anche un piccolo stimolo per cercare di dare sempre il meglio, confrontandoci con altre band, con altri artisti.”
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