La seconda puntata della terza stagione di Star Trek: Picard è sbarcata da oggi 24 Febbraio su Amazon Prime Video e Paramount+. Affrontiamo la prima puntata cogliendo l’occasione per fornire qualche spunto di riflessione.
Inutile fingere che non ci sia un elefante dentro la stanza, anzi, forse abbiamo un intero zoo quando parliamo di Star Trek: Picard. Mettiamo da subito le cose in chiaro: la serie nelle sue prime due stagioni ha disatteso i fan d’antan e, allo stesso tempo, non è riuscita a creare engagement (ancor peggio se una delle battute storiche del Capitano Picard è proprio “engage”) con il nuovo pubblico. Come un morto che cammina e che si trascina su sé stesso Star Trek: Picard, così come del resto la nuova installazione della serie principale Star Trek: Discovery, hanno fallito sia dal punto di vista di mero prodotto fantascientifico, sia come ulteriore tassello del nuovo Trek fraintendendone la mitologia e propinando scelte ridicole, brutte e grossolane. Non a caso i fan hanno sagacemente bollato come “nu-trek” (non-Star Trek in un gioco di parole per assonanza da new-trek) tutto il nuovo corso produttivo di Alex Kurtzman iniziato con il film reboot Star Trek (J.J. Abrams, 2009).
Eppure, negli ultimi giorni, è successo qualcosa di veramente strano. Come un fulmine a ciel sereno i più accaniti Trekkers su YouTube, da sempre molto critici nei confronti del nuovo corso, hanno pubblicato sulla piattaforma recensioni in cui parlavano di una terza stagione incredibile. La cosa si è estesa sempre più a macchia d’olio arrivando perfino ad un metascore del 100% da parte della critica sul sito aggregatore di recensioni RottenTomatoes. Per citare un altro grande franchise: c’è “una nuova speranza”?
Prima di parlare di Star Trek: Picard è oneroso fare le dovute premesse. La serie dalla quale dirama Picard ossia Star Trek: The Next Generation è stata tante cose. Prima fra tutte “l’esplorazione dei tanti strani e nuovi mondi alla ricerca di forme e di nuove civiltà” ma con tutti i viaggi dell’Enterprise fino all’ultima frontiera dello spazio conosciuto è stata anche una serie che ha sempre saputo mantenere i piedi ben saldi sul terreno. Tra tutti gli episodi delle sette stagioni alcuni splendono di luce propria riuscendo ad arrivare a vette di umanesimo che mai erano state viste prima in una serie di fantascienza per il piccolo schermo altri, invece, sono meno folgoranti. Nella sua rappresentazione di un futuro utopico non tutti gli episodi delle sette stagioni sono allo stesso modo utopici qualitativamente parlando tuttavia pace, prosperità, integrazione, rispetto nei confronti delle diseguaglianze, comprensione, uso della diplomazia per risolvere i conflitti, spirito d’avventura e di esplorazione, disciplina ferrea e raziocinio sono solo alcuni degli elementi costituenti della “prima direttiva” che il creatore Gene Rodenberry ha sempre preteso fossero inviolabili rendendo così la serie un prodotto coerente e integro. Ognuno degli episodi autoconclusivi rimane indelebile nella mente dello spettatore per una drammaturgia in cinque atti ben congeniata, per una lezione morale che non risulta mai asfissiante, per un dilemma etico che viene risolto invitando lo spettatore ad una riflessione attiva, per l’evoluzione di un personaggio che acquisisce e apprende dalle nuove esperienze e, infine, per tutti i vari stratagemmi messi in atto che rendono l’episodio nella sua bizzarria e nella sua atipicità un piccolo laboratorio di scrittura creativa. Ma poi diciamocelo, ridendo e scherzando, cosa c’è di più utopico dell’avere un’astronave come ambiente lavorativo non tossico in cui i “dipendenti” intrecciano tra loro relazioni di rispetto reciproco? Certo, perlomeno questo riguarda le sfere alte della plancia visto che tutti gli altri “funzionari” e “dipendenti” non vengono mai pienamente mostrati e approfonditi e, del resto, proprio su questo si basa l’umoristica serie d’animazione “Star Trek: Lower Decks”.
Oltre a ciò, Star Trek godeva di un impatto estetico notevole, non sempre la computer grafica era di qualità altissima ma tutta la dimensione manifatturiera e artistica è ancora oggi esposta e in bellavista come, per esempio, testimonia il profilo instagram @startrekdesign (instagram.com/startrekdesign) in cui vengono pubblicati tutti i ricorrenti oggetti dal design futuristico costruiti ad hoc per la serie. E poi sempre dal punto di vista manifatturiero non dimentichiamoci anche delle tante altre creazioni artistiche come quella degli illusivi matte paintings: dipinti principalmente di vedute paesaggistiche realizzati allo scopo di essere collocati all’interno della composizione digitale cosicché da abbattere gli esosi costi produttivi.
Sembra banale sottolinearlo ma oggigiorno sono tutte cose che per una serie contemporanea sembrano quasi impossibili; eppure, più di trent’anni fa, Star Trek: The Next Generation ci riusciva. Il nuovo corso di Kurtzman invece ha cancellato quasi ogni traccia di tutto questo, deviando completamente dall’opera originale e non aggiungendo nulla di pressoché significativo. Lo stesso discorso vale per l’impatto estetico, laddove, le nuove installazioni ripropongono le fatiscenti visual pseudo-futuristiche completamente in computer grafica e, spesso, con risultati anche non ottimali. Sono immagini stereotipate dal punto di vista visuale: riconoscere un frame da Star Trek: The Next Generation è immediato, invece, quando ne osserviamo uno di Star Trek: Picard manca questa capacità di discernimento e potremmo perderci nel bailamme di sottoprodotti sci-fi commerciali. Soffermiamoci ora sulla terza stagione di Star Trek: Picard.
SPOILER ALERT
La terza stagione di Star Trek: Picard parte svantaggiata, trascinandosi dietro tutte le aberrazioni delle prime due stagioni. Prima fra tutte: il capitano Picard è morto per una malattia neurologica ma torna in vita nella prima stagione perché il suo cervello viene trasferito in un corpo sintetico. Il suo nuovo corpo ha le stesse caratteristiche del suo vecchio corpo, ma con una vita più lunga e una forza leggermente superiore. Chi ci ritroviamo davanti? Una copia non organica del personaggio è sempre lo stesso personaggio? Se la spinosa questione era stata magistralmente affrontata nell’episodio “The measure of a man” un legal-drama in cui l’integerrimo capitano Picard doveva dimostrare dinnanzi ad un tribunale temporaneo l’umanità, l’unicità e l’individualità dell’androide Data per evitare che venisse smontato e studiato; qui gli autori sembrano essersi prese tutte le libertà creative del caso. Lo stesso vale per la forzatura narrativa di inserire un rapporto omoerotico tra Sette di Nove e il nuovo personaggio di Rafi, una scelta “woke”. Un grande rammarico vedere Star Trek avvalersi di mezzucci del genere quando in realtà la serie originale ha stracciato ogni record sui diritti civili per il piccolo schermo, portando una donna linguista afroamericana nello spazio e rappresentando il primo rapporto tra due specie diverse. Ad aggravare ulteriormente le prime due stagioni di Picard c’era poi anche la riscrittura del suo personaggio reso fin troppo melodrammatico ed espressivo, cozzando del tutto con il personaggio della serie di riferimento. E poi ci sono tutte le sequenze d’azione che, per l’amor di dio, erano presenti anche nei film – pensiamo a Star Trek: First Contact (Jonathan Frakes, 1996) – ma nonostante l’approccio molto diverso riuscivano comunque a raccontare una storia valida e coerente. Le sparatorie in Star Trek sono sempre state centellinate, questo perché erano l’ultima risorsa da utilizzare anche nelle situazioni più disperate di casus belli. Prima di attaccare una nave ostile, in Star Trek: The Next Generation si cercava sempre di aprire un canale di comunicazione. La comunicazione veniva prima della sparatoria e, spesso, si cercava di disarmare il nemico piuttosto che attaccarlo. L’astuzia veniva prima della violenza. Il conflitto diventava così una paziente partita a scacchi dato che una pistola phaser caricata al massimo era in grado di sbriciolare una forma di vita con un solo colpo.
FINE SPOILER ALERT
La prima rotta di correzione di Star Trek: Picard è sicuramente quella inerente alla nostalgia. Le premesse iniziali di Star Trek: Picard erano proprio quelle di riprendere la storia per darne “il giusto finale” e, come assicurato più volte dagli showrunner, non è necessario aver visto le due precedenti stagioni per poter seguire la terza. Una mossa giusta quella del tabula rasa con la buona intenzione di rendere la terza stagione, stando alle dichiarazioni dello showrunner Terry Matalas, il film di dieci ore che avremmo sempre desiderato su Star Trek: The Next Generation. Il risentimento dei fan nei confronti della serie è quindi oltremodo comprensibile visto che Star Trek: Picard ha disilluso le aspettative sedimentate per anni. Se nelle prime due stagioni di Picard la nostalgia era un elemento forzato, qui diventa molto più spontaneo e naturale e, sotto certi punti di vista, anche interessante.
Per prima cosa si va ad alimentare il desiderio di tutti i fan più sfegatati, eliminando quasi tutti i personaggi visti in Picard e rintroducendo sullo schermo tutto lo storico cast della serie The Next Generation. La puntata si apre con lo storico font blu utilizzato per la sigla di The Next Generation quasi a voler fin da subito fare ammenda dei propri errori. La colonna sonora riprende le tante melodie dello show e dei vari film ed è stato fatto un ottimo lavoro su questo fronte, riarraggiando motivi che richiamano la saga intera.
Dopo l’enstabling shot e un piano sequenza che richiama alcuni degli oggetti tipici della serie, c’è una sequenza d’azione con la dottoressa Beverly Crusher, sperduta nello spazio profondo in una nave assaltata da una minaccia sconosciuta. Nell’azione successiva, la dottoressa Crusher comincia a sparare fucilate quasi come se fosse Ellen Ripley da Alien – Scontro finale (James Cameron, 1986), la scelta narrativa di iniziare l’episodio con una scena d’azione non è sicuramente una gran cosa per i motivi succitati, ad ogni modo, durante l’attacco Beverly riesce comunque a mandare un messaggio al Capitano Picard e attiva la velocità di curvatura della nave mettendosi in salvo insieme a suo figlio. La sequenza successiva mostra un quadro dell’Enterprise-D, siamo nella dimora del capitano Picard che, intento ad osservarlo, afferma che vorrebbe sbarazzarsi di quel quadro e rivenderlo a Geordi La Forge che nel frattempo si è reinventato come dirigente del museo della flotta; viene comunque fermato dalla sua nuova compagna romulana che gli ricorda l’importanza del passato e della sua preservazione. In effetti, la scrivania di Picard straborda di oggetti miniaturizzati che lo mettono continuamente di fronte al proprio passato ma Picard, quasi come preso da una forma di cecità latente, bolla il tutto come “ricordi” e poi afferma di aver bisogno di una nuova avventura. L’apparente calma e serenità viene interrotta da un ripetitivo suono d’allarme, quasi a ricordarci il lacerante ticchettio dell’orologio da rote nella poesia di Ciro di Pers. Sono passati vent’anni e l’obsoleto tricorder del capitano Picard, uno degli oggetti iconici di The Next Generation, riprende vita: Beverly ha infatti inviato una comunicazione criptata su un vecchio comunicatore avvertendolo di una minaccia incombente ma Picard non riesce a comprendere il messaggio e chiede aiuto al numero uno Riker.
La nostalgia dei primi dieci minuti viene evocata mediante l’uso degli oggetti che, quasi come se fossero una macchina del tempo, riescono a varcare le soglie dello spazio-tempo riportandoci verso luoghi lontani. Per tutto il tempo vediamo Enterprise miniaturizzate elevate quasi a feticci, registrazioni del diario di bordo, il flauto di Picard, la sua divisa in un’onnipresenza segnica che instilla nello spettatore una comunicazione semiotica di tipo iconico e simbolico. Il fan o lo spettatore più attento riconosce il significato convenzionale dell’oggetto e il potere di cui essi sono carichi.
Rivedere Jonathan Frakes nei panni di Riker è una grande cosa e, da questo momento, la puntata inizia finalmente a decollare. Il dialogo tra Riker e Picard è quello tra due vecchi amici che s’incontrano dopo tanto tempo al bar ma, nonostante il forte impatto rievocativo della sequenza, iniziano anche le prima perplessità. Riker spiega a Picard che “la soluzione dell’enigma” è semplicemente un riferimento al passato della serie: a quanto pare nel celebre doppio-episodio “Both of two worlds” in cui Picard veniva assimilato dai Borg diventando Locutus, si cercava al contempo di recuperare il capitano ma anche di fronteggiare un virus “Hellbird” che impediva la fuga dell’Enterprise dai Borg. Questo spiegherebbe il perché il capitano Picard non fosse stato in grado di risolvere l’enigma, semplicemente non era a bordo. Il problema è che noi spettatori c’eravamo a bordo e il virus Hellbird non è mai stato menzionato nell’episodio originale. Se concettualmente la cosa sarebbe potuta anche risultare affascinante perché ci ricorda come la memoria sia un qualcosa di totalmente sfuggente e aleatorio, la scelta narrativa, purtroppo, non mi è parsa particolarmente ben congeniata per i motivi che presto mi accingerò a delineare. Certo, l’episodio cerca comunque di riflettere così come i tanti altri prodotti seriali sul significato della memoria e della nostalgia. La memoria ottenebrata è una coltre bianca in cui perdersi come quella che ben rappresentava Federico Fellini – da sempre ossessionato sul concetto di ricordo – nel film Amarcord quando l’anziano signore uscito di casa, smarrito nella nebbia si domanda tra l’incredulo e lo spaurito: “Dove sono?”. L’obnubilamento è prima di tutto interiore e, nella nebbia della mente, si cerca di scorgere tra le varie sagome. È un atto di piena pulsione vitale, le memorie sanno essere una fonte dalla quale abbeverarsi perché i ricordi ci definiscono. Ricordare ci ricorda chi siamo. Se ne fa sopra una questione di umanità, a tal punto che anche in Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017) Joe bramava più di ogni altra cosa di conoscere la verità sui suoi ricordi, sapere se fossero prefabbricati oppure autentici. Tra verità e menzogna c’è la questione di vita o di non vita traslata sul piano di vita organica o sintetica.
Tuttavia, la scelta di inserire un elemento nuovo e al contempo così importante al passato della serie non è affatto saggia. Sarebbe bello trarne un’interessante riflessione sui ricordi e di come la nostalgia cerchi di rimodellarli a proprio piacimento, spesso falsificandoli. Nella sua concretezza però la scelta siffatta va innanzitutto a snaturare la natura del doppio episodio attraverso l’introduzione di una nuova linea narrativa di non poco conto e, inoltre, la soluzione narrativa di introdurre di punto in bianco questo nuovo virus non stimola lo spettatore posto a tutti gli effetti dinnanzi ad un enigma irrisolvibile, senza poter sfruttare tutto il capitale culturale accumulato. Come ben enuncia Darren Mooney per Escapist Magazine:
“The second irony is that all of this invocation of the past feels weirdly fuzzy and inaccurate. It’s not an actual memory, but a conjured illusion. It’s a simulacrum of The Next Generation, but one blurred at the edges. For example, a key plot point involves Picard and Riker decoding a transmission by reference to the Borg virus that “scrambled (their) navigation” during “The Best of Both Worlds.” Except there was no Borg virus in “The Best of Both Worlds.” Nothing like that was in the episode, despite Riker’s insistence.”
L’episodio prosegue poi riportando anche il personaggio di Rafi introdotto nelle precedenti due stagioni di Star Trek: Picard. Ancora una volta, la linea narrativa di Rafi risulta sconclusionata e perniciosa alla buona riuscita di questa terza stagione. Qui Rafi riesce ad ottenere un’informazione importante da un contrabbandiere, tuttavia, pur riuscendo a comprendere quell’informazione e intuire il grande schema delle cose non arriverà in tempo per prevenire un disastro di larga scala. Uno dei tratti fondamentali di Star Trek era proprio nel principio di azione-reazione in un rapporto sbilenco tra le due laddove anche la più piccola delle azioni sconsiderate poteva portare a terribili reazioni secondo un processo irreversibile. Di conseguenza, ogni azione doveva essere soppesata; qui, invece, sebbene l’esito sia una catastrofe per nulla emerge il pathos della scena, portando lo spettatore a provare la medesima empatia di quella che avrebbe se gli sbattessero in faccia un disaster movie.
La sequenza centrale risulta invece la parte più riuscita dell’episodio, nel perfetto stile Star Trek in una sequenza di scontro verbale tra capitani. Viene introdotto Shaw, il nuovo capitano della Titan un uomo superbo e raffinato che disprezza Picard e Riker bollandoli come avventurieri imbonitori. Picard e Riker hanno bisogno della nave per potersi avvicinare il più possibile alla nebulosa in cui Beverly potrebbe essere intrappolata riuscendo a compiere la missione grazie all’aiuto di 7 di 9.
Il primo episodio di Star Trek: Picard si pone a tutti gli effetti come un trampolino di lancio per le prossime puntate. L’impressione è che la terza stagione stia cercando lentamente di distaccarsi dalle precedenti, correggendo gli errori e regalando agli spettatori quello che avrebbero sempre voluto. Gli ingredienti di partenza sono quelli giusti, ora c’è solo da vedere se verranno correttamente combinati tra di loro.
Il tasso di apprezzamento è stato elevato ma come riportato nell’articolo ci sono ancora diverse incongruenze e scelte discutibili che non segnano un distacco netto dalle prime due stagioni. Forse la mossa più corretta sarebbe stata proprio quella di tagliare il nodo gordiano, ignorando le tante amenità delle prime due stagioni o ironizzandole pur di non affrontarle. A questo punto non resta che aspettare i successivi episodi per poter effettivamente trarre un giudizio finale. Nel frattempo, auguro lunga vita e prosperità a tutti.
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