The Social Dilemma: l’importanza di imparare ad usare correttamente i social media

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The Social Dilemma è la testimonianza a tratti inquietante di quello che si cela dietro i social media, piattaforme multimediali che hanno preso il controllo delle nostre vite.

Diretto da Jeff Orlowski e prodotto da Larissa Rhodes, The Social Dilemma era stato inizialmente presentato al Sundance Festival il 9 gennaio 2020 e solo dallo scorso 9 settembre è diventato usufruibile su Netflix. Il suddetto film si presenta sotto forma di documentario in cui intervengono personalità che per un lasso di tempo hanno lavorato presso varie aziende della Silicon Valley, area della California del sud che è sede di diverse società internazionali dedicate all’alta tecnologia; ora, in The Social Dilemma, ne denunciano i meccanismi persuasivi atti a fare di noi users il vero prodotto.

La parte documentaristica è intervallata da frammenti recitati che ricostruiscono la storia di un adolescente con un problema di dipendenza dai social media. In queste parti recitano Skyler Gisondo (Ben), Kara Hayward (Cassandra), Vincent Kartheiser (A.I.), Sophia Hammons (Isla), Catalina Garayoa (Rebecca), Barbara Gehring (madre di Ben) e Chris Grundy (patrigno di Ben).

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Uno dei primi ad esporre la sua esperienza nella Silicon Valley è Tristan Harris, fondatore del Center for Humane Technology.  

Per anni Harris ha lavorato come esperto di design in Google, grazie anche ai suoi studi in etica della persuasione umana. Quando iniziò a lavorare in Google Inbox, – servizio e-mail rimosso nel 2019 – si accorse che si doveva agire dall’interno per affrontare una questione fondamentale: nessuno aveva pensato a come far sì che Gmail creasse meno dipendenza tra i suoi utenti.

Da questa idea cominciò a lavorare su una presentazione che ricevette un gran numero di feedbacks positivi e che giunse persino all’attenzione di Larry Page, co-fondatore di Google. Nonostante l’aria di rivoluzione che tale progetto sembrò portare inizialmente, però, la questione si dissolse senza nulla di fatto.

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“Se il prodotto non lo paghi, vuol dire che il prodotto sei tu”.

Aza Raskin, ex-dipendente in Firefox & Mozilla Labs e inventore dell’infinite scroll, pone l’accento sul fatto che siano gli inserzionisti a pagare per i prodotti che usiamo; i clienti sono loro, mentre ad essere venduti sono proprio gli utenti. Tim Kendall, ex-presidente di Pinterest, rimarca questo concetto specificando anche quanta competitività ci sia tra i vari social media e come ognuno di loro cerchi di ottenere più attenzione possibile dai consumatori.

Jaron Lanier, informatico e autore del libro “Ten Arguments for Deleting Your Social Media Accounts Right Now”, puntualizza il concetto espresso da Justin Rosenstein (inventore del pulsante “like”). Mentre quest’ultimo ci spiega che ciò per cui gli inserzionisti pagano consiste nel mostrare a noi “clienti” i loro prodotti, – e ottenere così la nostra attenzione – Lanier è del parere che a rappresentare il prodotto vero e proprio è il cambiamento graduale, sottile ed impercettibile nel comportamento e nella percezione di ognuno di noi.

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Quando la persuasione si unisce alla tecnologia

I fruitori dei social media vengono manipolati dalle industrie high-tech in maniera subdola e profonda, così che essi non ne siano coscienti e vengano continuamente attratti da contenuti nuovi e adattati sempre di più alle proprie preferenze.
Gli algoritmi hanno un ruolo cardine in tutto ciò. Cathy O’Neil, matematica, ci spiega come queste sequenze codificate siano tutt’altro che obiettive; gli algoritmi, infatti, sono ottimizzati secondo una definizione di successo.

Jeff Seibert, co-fondatore di Crashlytics, introduce il concetto di apprendimento automatico: date le istruzioni al computer su come ottenere un certo risultato, esso lo raggiunge da solo e migliora progressivamente nella scelta dell’ordine giusto dei post, al fine di aumentare il tempo trascorso dall’utente sulla piattaforma.

Sandy Parakilas, ex-operation manager di Facebook, sottolinea quanto l’uomo abbia perso il controllo su questi sistemi, considerando i modi sempre più sofisticati in cui le informazioni sono automaticamente scelte per i consumatori.

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I “rabbit holes” e l’impatto della disinformazione

Come specifica Guillaume Chaslot, gli algoritmi non sono progettati per dare all’utente ciò che vuole ma piuttosto per cercare il rabbit hole che più si avvicina agli interessi di ciascuno. Da questo meccanismo ha origine in molti casi la piaga delle fake news che, sfortunatamente, tendono ad estendersi a velocità maggiore rispetto alle notizie reali. Tutto questo avviene a scopo di lucro: nel momento in cui si permette a notizie incontrollate di circolare ed arrivare a chiunque per il prezzo migliore, le aziende guadagnano di più.

La preoccupazione più grande che questo procedimento desta è nell’impatto delle fake news sugli eventi reali: basta pensare ai terrapiattisti, o alle proteste avviate dai negazionisti del Covid-19 in varie parti del mondo.

Il pericolo della propaganda politica

Messi nelle mani sbagliate, i social media possono arrivare ad avere un peso da non sottovalutare. Cynthia M. Wong pone l’accento su come Facebook abbia dato modo all’esercito ed altri malintenzionati in Myanmar di fomentare l’odio verso i musulmani Rohingya e controllare l’opinione pubblica, facendo culminare tutto ciò in uccisioni di massa, incendi e altri gravi reati.

L’esistenza della propaganda politica non è da attribuire ai social network, ma questi ultimi ne hanno aumentato la facilità di diffusione a prezzi contenuti.

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Un punto di non ritorno

I cambiamenti portati dall’avvento dei social media e dalla tecnologia sempre più avanzata sono profondamente insiti nella società e proseguono quotidianamente a condizionare le esistenze di chiunque ne faccia uso. Moltissime azioni della vita di ogni giorno si sono trasferite in uno schermo a portata di mano e questa è una comodità da non sottovalutare, ma occorre sempre non sottovalutare i pericoli derivanti dall’uso eccessivo della tecnologia, social networks in particolare: non è una novità il fatto che terreni competitivi ed esibizionistici come Facebook e Instagram contribuiscano sempre di più all’aumento di casi di depressione tra i più giovani.

Tornare indietro è un’eventualità molto remota e le generazioni future cresceranno senza avere idea di come fosse la realtà prima dell’avvento dei social media. Non è saggio guardare alla situazione con aria esclusivamente pessimista, ma spetta alla coscienza individuale di ciascuno di noi arginare gli effetti più devastanti che i social media hanno sulla vita di tutti i giorni.     

The Social Dilemma, mostrandoci i meccanismi sotterranei dei quali non si tiene normalmente conto tra un like e una condivisione, è un docudrama funzionale soprattutto a chi ha problemi di dipendenza dal proprio smartphone. Conoscere la struttura di quell’insieme di processi in grado di rubare grandi quantità di tempo a sfavore di altre attività funzionali è il primo passo per uscirne fuori.

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