Il Sublime è un concetto filosofico che ha goduto di grande popolarità nei secoli. Kant lo ha fissato con le sue considerazioni, Friedrich lo ha rappresentato riuscendo nell’impresa di dare forma a qualcosa che va ben oltre l’immaginario umano.
Quante volte avrete sentito parlare del “sublime”? Ebbene, il termine deriva dal latino sublimis che significa “ciò che giunge fin sotto la soglia più alta”.
“Il Sublime è un termine designante un tipo di esperienza estetica e distinta, per caratteri che sono oggetto di discussione, da quella del Bello. Bello è ciò che ha forma, ordine, misura, mentre il Sublime non ha forma, è disordine, dismisura, isola e rende sensibile all’Io; la sua originalità veniva rappresentata dal “genio” attraverso la maestosità della Natura, il mistero della notte, sogni pari a incubi”.
De Luise-Farinetti, Lezioni di storia della filosofia, Zanichelli editore, 2010
Esso si sviluppa in tutti i campi, ma nella letteratura e nella pittura trova principalmente il suo sfogo. Un pensatore inglese, Edmond Burke, affermava:
“Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del Sublime… è ciò che produce la più forte emozione che l’anima sia capace di sentire”.
E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, 1757.
Kant e il sublime
La nozione del Sublime è diventata centrale nell’estetica moderna a partire dal secolo diciassettesimo e non a caso molti protagonisti delle più famose correnti filosofiche, artistiche e letterarie, hanno descritto ampiamente tale concetto, rendendolo un importante oggetto di discussione.
Tra i fautori del concetto filosofico di Sublime, vi è Immanuel Kant, che dopo una contrapposizione tra estetica del bello ed estetica del sublime torna su quest’ultimo, nella Critica del Giudizio, ampliandolo e distinguendo tra sublime dinamico e sublime matematico.
Il primo rappresenta l’espressione della potenza annientatrice della natura, di fronte alla quale l’uomo prende coscienza del proprio limite e dove nulla può.
“Di fronte alla magnificenza della natura l’uomo prova dapprima un senso di smarrimento e di frustrazione, ma riconosce poi grazie all’esperienza del sublime la propria superiorità: in quanto unico essere del creato capace di un agire morale, egli è collocato al di sopra della natura stessa e della sua grandiosità”.
I. Kant, Critica del giudizio, 1790.
Al primo tipo dunque, appartengono fenomeni naturali e del tutto irrefrenabili, quali gli uragani o le grandi cascate, al secondo tipo gli spazi a perdita d’occhio, quasi infiniti del deserto, dell’oceano e dell’universo.
“D’altra parte si può considerare temibile un oggetto, senza peraltro provarne paura; quando cioè lo giudichiamo tale limitandoci a pensare al caso in cui gli volessimo fare resistenza, ed alla totale inutilità d’ogni resistenza in tale caso. Così l’uomo virtuoso teme Dio, senza averne paura: perché l’eventualità di volersi opporre a lui ed ai suoi comandi non gli sembra una possibilità della quale debba preoccuparsi. Ma per ogni caso simile, che egli non ritiene in se stesso impossibile, riconosce che Dio è temibile”.
I. Kant, Critica del giudizio, 1790.
Nel secondo concetto, ovvero il sublime matematico, Kant spiega;
“La contemplazione di tale spettacolo induce la mente a prendere coscienza del proprio limite razionale e a riconoscere la possibilità di una dimensione sovrasensibile, da esperire sul piano puramente emotivo. […] La natura viene dunque detta sublime soltanto perché eleva l’immaginazione a raffigurarsi quei casi nei quali l’animo può rendersi percepibile la speciale sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura”.
I. Kant, Critica del giudizio, 1790.
“Dunque, qui la natura è sublime quando ci spinge a trovare in noi stessi la forza. Ne viene la stima per la nostra facoltà spirituale, la cui destinazione ci si rivela sublime”.
De Luise-Farinetti, Lezioni di storia della filosofia, Zanichelli, 2010
Partendo dal sentimento naturale della paura, Kant mostra che il piacere deriva dalla presa di coscienza della nostra forza spirituale, che ci mette in grado di resistere alla sfida di minacce mortali e di superare, se occorre, i timori per la fragilità dell’esistenza. Il valore estetico del sublime si carica quindi di un forte significato morale, permettendo di rintracciare la somiglianza tra esperienze simboliche, come quelle vissute nella contemplazione di uno spettacolo naturale, ed esperienze di vita estreme, come quelle della guerra.
Friedrich e il sublime kantiano
Il sublime, in quanto concetto estetico-etico, è rintracciabile nelle principali teorie dell’arte del Sette e Ottocento, specialmente quelle romantiche. Elementi chiave di questa corrente sono, infatti, le profonde riflessioni esistenzialiste sulla natura dell’uomo, sulla vita e sull’arrivo improrogabile della morte. Pensieri che assillano l’uomo romantico, che non può far a meno di esserne completamente assorbito.
Proprio per questo, in arte, i pittori cercano di restituire immagini che possano emozionare l’osservatore, mostrandogli visivamente i sentimenti e le sensazioni che prova nell’epoca in cui vive. In questo periodo, l’uomo è affascinato dal mistero della vita, dallo sgomento che la natura a volte è in grado di provocare e dalla paura della morte.
Uno dei pittori che meglio riescono a trasporre in pittura questo cosmo di emozioni è Caspar David Friedrich (1774-1840). Il viandante sul mare di nebbia, forse l’opera più conosciuta di Friedrich, è un perfetto esempio di come l’arte possa essere espressione anche di concetti filosofici in parte complessi. Rimarreste sorpresi se vi dicessi che c’è un po’ di Kant anche in quest’opera?
Il soggetto dell’opera non è un semplice paesaggio naturale. Uno sguardo critico ne rivela la sua natura sublime, intesa in senso kantiano. I banchi di nebbia impediscono all’uomo di vedere chiaramente il panorama che si staglia davanti ai suoi occhi, offuscandone la comprensione. In particolar modo ci troviamo davanti alla rappresentazione del Sublime dinamico che, per Kant, è la chiara manifestazione della potenza della natura, davanti la quale l’uomo nulla può. Il sentimento che ne scaturisce fa concepire l’irraggiungibilità dei limiti della natura e il fascino che questa è in grado di scatenare in chi la osserva.
L’uomo, però, proprio perché consapevole di questo “intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima ha una facoltà superiore alla misura dei sensi” (Kant). Il viandante non rimane annientato infatti dalla visione che ha davanti, ma proprio questa lo induce in uno stato di profonda contemplazione.
Chi è il viandante?
La figura, considerata icona del romanticismo tedesco, rappresenta un pellegrino che si staglia da un punto rialzato verso l’infinito. Un eroe, un viaggiatore o un eremita? Probabilmente l’intento del pittore non è quello di farci capire chi sia questa misteriosa figura che ci mostra le spalle, bensì quello di far immedesimare l’osservatore nella sua figura di “Uomo”, che rimane in contemplazione davanti all’immensa e potente opera divina: la natura.
«Il rapporto col paesaggio in lui si colora di un elemento insolito: la partecipazione commossa del soggetto, il senso dell’infinito e del mistero, che conduce con sé simboli, evocazioni, allegorie. Sovente è la natura stessa a fare da protagonista, sia per l’assenza dell’uomo, sia perché anche quando è presente esso si fonde con la natura in un tutt’uno che celebra l’assoluto».
Marco Bona Castellotti, in Friedrich: un viandante su un mare di luce.
di Erica Trucchia e Eleonora Turli
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