Silvia Gribaudi | Decostruire la società a passo di danza

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Il percorso artistico di Silvia Gribaudi come coreografa inizia nel 2009 ed è da sempre stato caratterizzato da un rapporto attivo e diretto con il pubblico, spesso seguendo un registro ironico utile a smascherare e decostruire i pregiudizi che caratterizzano la società in cui viviamo. In particolare, Gribaudi mira da sempre a mettere in discussione gli ideali di bellezza del corpo e di perfezione tecnica affrontando  inevitabilmente gli stereotipi di genere che caratterizzano la società in cui viviamo, che condizionano il nostro modo di pensare e comportarci. Gribaudi vanta una lunga carriera come danzatrice e coreografa tempestata di riconoscimenti nazionali ed internazionali, portandola dunque ad essere una delle più influenti coreografe contemporanee nel nostro paese. 

Le sue ricerca incentrata sull’impatto sociale del corpo iniziano ben prima del suo esordio come coreografa, già dal 2004 possiamo vedere come Silvia Gribaudi riesca ad unire la danza con la comicità andando ad instaurare una relazione indissolubile con il pubblico, rendendolo partecipe dei suoi spettacoli. La partecipazione del pubblico, infatti, non si limita all’applauso o alla risata scatenata da una battuta o da un gesto: lo spettatore viene chiamato a rispondere a delle questioni volte a far nascere un confronto con i performer che spesso accompagnano Gribaudi o che portano alla luce le sue coreografie.

Victor Turner e successivamente da Richard Schechner (rispettivamente un antropologo e professore universitario britannico e un regista e teorico teatrale statunitense ndr) hanno fatto risalire la componente ludica nella teoria del teatro e della performance al rito. Nello specifico, Turner sottolinea come danza, teatro e cinema, svolgano un ruolo simile a quello del mediatore nei rituali religiosi. Schechner, nel suo studio sulla performance, paragona la dimensione rituale a quella del gioco: secondo il teorico statunitense il gioco nel rito – e nello specifico in performance – trasporta lo spettatore in una dimensione altra, che si discosta dalla realtà che viviamo quotidianamente. Negli ultimi spettacoli messi in scena da Gribaudi e i suoi collaboratori, la coreografa crea delle “situazioni” – per citare il filosofo, sociologo, scrittore e cineasta francese Guy Debord – volte a far nascere delle nuove dinamiche sociali nel contesto in cui vengono generate. Le situazioni prendono forma grazie alla partecipazione del pubblico, come accade in molti format fin dagli anni Sessanta. Per Debord le “situazioni” sono la naturale evoluzione del teatro di Bertold Brecht.

Brecht nelle sue opere teatrali rifiuta l’utilizzo di trame intricate per favorire la creazione di situazioni che rompono il ritmo narrativo tramite l’inserimento di canzoni, passaggi dalla prima alla terza persona nella recitazione per favorire l’effetto di straniamento dell’attore rispetto al personaggio, o di cartelli che spiegano allo spettatore i sottotesti della vicenda rappresentata e così via. In questo modo il pubblico viene allertato a non immedesimarsi nei personaggi in scena e mantenere uno sguardo lucido e critico sulla scena e sulla storia narrata. 

Altri concetti fondamentali per la produzione coreografica di Silvia Gribaudi è la decostruzione del concetto di bello e la normalizzazione di corpi ritenuti non conformi. 

silvia gribaudi

Il concetto di bello è stato storicamente oggetto di studio della filosofia che ha indagato gli aspetti morali fin da Platone e quello meramente estetico introdotto dai sofisti e gli aristotelici. Se nell’antichità il bello era inteso in un’ottica oggettiva, dal Settecento e in particolare con Immanuel Kant, la prospettiva inizia a cambiare verso una concezione soggettiva. La sua teorizzazione attribuiva un valore universale al bello nonostante il giudizio espresso fosse soggettivo. In campo artistico la definizione di bello viene attribuita dal XIX secolo in poi esclusivamente all’arte classica, ossia a quelle opere eseguite nell’Antica Grecia o in età romana. Un’eccezione veniva fatta per quelle opere contemporanee che riprendevano a modello i canoni dell’antico. 

Gli standard di bellezza attuali sono stati introdotti nell’immaginario collettivo già a partire dal secondo dopoguerra, soprattutto grazie al mondo del cinema. Un altro fenomeno che nasce in quel periodo, è la crescente visibilità dei giornali che si occupavano della cultura estetica e di moda. Insieme al proliferare delle immagini si diffonde un ideale di bellezza inarrivabile per la maggior parte delle donne, sebbene rappresenti per tutte l’obiettivo da raggiungere per essere ritenute belle e per sentirsi tali. Fin dagli anni Novanta del secolo scorso, le teoriche del femminismo hanno affermato quanto gli ideali di bellezza siano funzionali alla perpetuazione del sistema patriarcale. Negli ultimi venti anni il concetto di bellezza è divenuto oggetto di studio e di dibattito oltre che delle teorie femministe anche di quelle queer. 

Naomi Wolf in The Beauty Myth, pone l’accento sugli assurdi standard di bellezza femminile che la società fallocentrica ha imposto alle donne per secoli, cercando di attuare una presa di coscienza per avviare un percorso di ribellione e sovversione alle imposizioni sociali collettiva. Più recentemente, altre prospettive femministe stanno cercando di riappropriarsi degli standard di bellezza per decostruirli e usarli come uno strumento volto all’espressione della propria identità specifica. Le teorie queer e i disability studies, per esempio, problematizzano la visione eteronormativa della bellezza a favore di un’esplorazione di tutte le potenzialità che una visione slegata dal binarismo e più inclusiva potrebbero portare al concetto di bellezza. La domanda che viene posta è come la bellezza possa essere ridefinita, tenendo conto di molteplici varianti come le etnie, la disabilità, le differenti classi sociali, l’identità di genere, la sessualità.

Gli studi queer, femministi e disabili contemporanei concordano sul voler riposizionare il problema della produzione della bellezza in relazione al gusto, all’economia globale, alla violenza razzista e coloniale. Le categorie sociali marginalizzate usano un’espressione non-normativa di bellezza per contrastare la visione eurocentrica, patriarcale, eteronormativa, omofobica e bianca che caratterizza la società in cui viviamo. Gribaudi con i suoi spettacoli  si fa portatrice di un messaggio volto a smantellare l’idea che solo i corpi che rispondono a un criterio unico di bellezza possano essere considerati degni di apprezzamento da parte del pubblico. Inoltre, le sequenze coreutiche non sono sempre rese con grazia, al contrario anche la goffaggine è parte integrante del progetto artistico e finalizzata a mettere in discussione anche il virtuosismo tecnico abbinato a una certa configurazione e rappresentazione del corpo del danzatore accademico. Ad oggi la danza si è aperta ad una concezione più inclusiva rispetto a vari tipi di corporeità, andando a rompere con i canoni che hanno accompagnato questa disciplina fin dai suoi albori. Al contrario il concetto di grazia è da sempre stato limitante per coloro che volevano intraprendere una carriera o anche solo avvicinarsi al mondo della danza.

Per quanto riguarda il mondo dell’arte e della performance nello specifico, un primo confronto diretto con i corpi non conformi c’è stato negli anni Settanta grazie alle artiste femministe. Queste usavano i loro corpi come strumenti di critica e di lotta attiva per distruggere i concetti legati alla società eteronormativa e patriarcale. L’utilizzo senza filtro dei corpi femminili, di qualsiasi tipo, che queste artiste hanno introdotto ha aperto la strada alla rappresentazione di soggettività che differiscono da quelle definite canoniche andando a stabilire una forte connessione tra la politica, le pratiche del corpo e l’autorappresentazione. Gribaudi si unisce a quella schiera di artiste che usano il proprio corpo per veicolare messaggi positivi di accettazione di sé, sensibilizzando gli spettatori verso tematiche che li toccano da vicino. Silvia Gribaudi contribuisce a portare avanti un messaggio di inclusione verso tutti quei corpi che stanno iniziando ora a rivendicare i propri spazi sulla scena, affermando a chiara voce che tutti i corpi sono degni di essere rappresentati e visti.

Foto a cura di Andrea Macchia

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