I canova si sono sciolti. L’ultima, grande, band, indie, indiepop, italopop, si è sciolta. Dissolta. Frontman Matteo Mobrici, che si è fatto anche autore di libri, verso un progetto solista; una storia d’amore che durava dal 2008 e che ha avuto repentina fine, con tanto d’annullamento del nuovo, terzo, disco; una storia intensa che ha avuto una fine crudele, rapida, e improvvisa
Almeno i Dari facevano ridere
Sì, i Dari, band “punk”- pop che ha calcato i palchi – i cuori delle adolescenti – italiani una decina d’anni fa non avevano, indubbiamente, intenti seri. Oddio, forse speravano di fare due soldi, con hit quali Wale, Tanto vale, Vai a cagare, magari di dare l’anticipo per il mutuo di casa – anche se era già scoppiata la bolla dell’immobile, e già cominciavamo ad emanare, in Italia, quel lezzo di pezzenteria tanto caro ai ricconi coreani dipinti in Parasite – di comprarsi un’auto di lusso, di andare a dormire tranquilli la notte dopo aver pagato la cena, alla ragazza di turno, ad un ristorante stellato Michelin.
Credevamo sarebbero durati per sempre? No, e abbiamo, purtroppo pentendocene, sperato che svanissero – nel senso che non esistesse, mai e poi mai, una stirpe dai Dari, un Homo sapiens darii – nel più breve tempo possibile.
Ahi, ahi, quanto ci sbagliavamo. Quanto si sbagliava la me di dieci anni fa, ingenua, sinistroide, ed incazzata adolescente politicamente impegnata e studiante musica. Quanto si sbagliava, qui della ragazzina coi capelli rossi.
Perché, poi, per grazia o per disgrazia, l’Internet, e con esso tutto lo scibile umano, tutta l’Arte, la cultura, l’esperienza, la letteratura, e, infine, la musica, è giunto nelle case degli italiani, prima di soppiatto, gatton gattoni nella notte col 56k, scivolando come elettroni lenti lenti e annoiati nei cavi del telefono; e, infine, come fasci di fibra ottica direttamente, comodamente, a casa tua. Sul tuo divano, tutta la musica del mondo. E YouTube. E Spotify. E Deezer. E Amazon Music. Che, zitti zitti, anno dopo anno, hanno finito col soppiantare un gigante come iTunes, e uccidere – quasi, anche se sopravvive esclusivamente per noi addetti ai lavori, di nuovo, quasi – Bandcamp.
La fine della gioia. La fine della vita. La fine della creatività, per quel ragazzetto magro magro, con una chitarra in braccio, magari una chitarra da destro suonata da mancino, i capelli lunghi fuori moda che gli ricadono in faccia e deve soffiarli via – la fine di un’epoca fatta di sacrificio, di anni passati dietro ai riff di Ingwie Malmsteen, nel tentativo di imitarli, quel riff, quella classe, quel virtuoso. E invece no.
Perché, a distruggere, ancora di più, i sogni di gloria di quel ragazzetto magro magro e dalla dubbia igiene, è arrivato l’indie (e, con loro, i canova)
I Dari facevano indubbiamente ridere. C’era una leggerezza di fondo, in quelle canzonette, che mancava dagli anni ’80. I gloriosi anni ’80. Il cobra non è un serpente, vamos a la playa, oh oh oh. Sotto la città, diceva Scialpi, c’erano strane cose. Poi, citando Appino, siamo diventati brutti.
Ora, io non so esattamente cosa ci fosse nel sottobosco umido e molliccio dal quale sono nati i canova, mi raccomando, con la c minuscola, ma dev’essere stato qualcosa di fortemente allucinogeno – anzi, no, scusate, correggo: psicotropo. Ma psicotropo in un dosaggio di stabilizzante dell’umore, quell’eterno piattume apatico che indubbiamente ha aiutato in molti, che è giusto che si provi per un periodo, ma Gesù, guardaci tu da lassù e diglielo anche tu, che eri uomo di violente passioni, che applicare il piattume emotivo in musica non sempre paga.
Eppure, nel caso dell’indie italiano, dei Canova, di Frah Quintale, della crew 126, degli Psicologi, di Motta – di cui ricorderemo Nada che ne ha elevato il talento all’ennesima potenza con una semplice ospitata e la rimarchevole somiglianza con Richard Ashcroft – , di mostri oramai sacri come Calcutta, del solitario Tommaso Paradiso, Galeffi (con la g minuscola) e, infine Gazzelle, la formula dell’appiattimento, emotivo, sociale, relazionale, musicale – questo spiaccicamento quasi violento, come quando bisogna forzare i panni sporchi in valigia dopo una vacanza – ha funzionato.
Ha funzionato per ben quattro anni, con questi artisti dagli strani nomi – Ernia, Viito, Clorofilla, Comete, Corallo, per nominarne qualcuno – che si sono gradualmente sostituito a personaggi ben più talentuosi e ben più celebri, come gli indie (veri) ante litteram, quali i Marlene Kuntz, i CCCP, gli Zen Circus, i Tre Allegri Ragazzi Morti, i Cani, e impedendo l’ascesa alla notorietà di artisti promettenti quali Niccolò Carnesi, Colapesce, Fulminacci, e Giorgio Poi – questi ultimi ritrovatisi risucchiati in vortice che non appartiene affatto loro e cui la mia invettiva assolutamente elogia.
Sono stati alcuni i paletti che questo “genere”, questa onda, questa wave, per usare un inglesismo totalmente inutile, ha perseguito ferocemente: proviamo a sintetizzarne alcuni
1)Scarso uso di strumenti fisici. Il che di per sé non è un male. La musica elettronica è il futuro più o meno da quando Luigi Russolo inventò gli Intonarumori, non è ancora passata di moda, mai ci passerà. Eppure, la totale – o quasi – assenza di chitarre, percussioni, bassi, putipù, si fa spesso abissale e desolante.
2)Il tono Slice of Life dei testi. Cito, da un grande classico di Gazzelle, Non sei tu:
E che ne sanno gli altri
Degli occhi nostri mescolarsi e diventare gialli, gialli
Ora, non voglio entrare nel dettaglio né tantomeno lanciarmi in parafrasi ed analisi del testo di cotante parole in libertà, ma ciò è per sintetizzare come le tematiche indie italiane siano dirette sostanzialmente ad eventi di vita vissuta. Vissuta, male, con una metà amorosa che per qualche ragione non c’è più, o perché andata via come expat, o perché la vita è effimera in tempo di covid19, o perché qualche residuo boudleriano mescolato ad un malriposto romanticismo wertheriano ha evidentemente fatto più danni di quanto i nostri professori pensassero. O, forse, Instagram e Tumblr, ed una scarsa comprensione della poetica del povero ubriacone Charles Bukowski, sono i veri unabomber dell’indie.
3)L’Aura maledetta. Attorno a questi personaggi, dai quali, ancora, escludo (con gioia) band quali i Pinguini Tattici Nucleari e gli Ex-Otago, o ben più raffinati La Rappresentante di Lista, c’è un alone scuro, violetto, da indigo child maledetto, di predestinato matrixiano, di prescelto dal Dio crudele del Mainagioia, la lotta generazionale (persa in partenza) contro i Boomer, che rende lividi di tristezza. E li capisco eh. Ma dal soffrirne all’esserne macchietta ce ne corre.
I canova sono morti, lunga vita ai canova
La musica di costoro era la summa nobile dei tre punti di cui sopra, con l’aggiunta di un certo cantato chiacchierato, un po’ degregoriano, un po’ completamente fuori luogo – un’estrema semplicità, che la coppia Mogol-Battisti aveva elevato a genere, senza, però, avere molto da dire fuorchè di ottimo intrattenimento – perché lunghi discorsi mononota su bikini, mare, aperitivi, coccole a letto mai realizzate, primi appuntamenti andati male, fondamentalmente, interessano davvero a qualcuno?
Sì, cazzo, sì, e c’è un problema di fondo, qui. Un problema sociale, che non mi arrogo la capacità di saper indagare, ma davvero, caspita, la mia generazione – quelli un po’ più giovani, noi abbiamo avuto la fortuna di crescere con i Green Day, i Linkin Park e i System of a Down – ha un tale vuoto emotivo dentro da dover ascoltare le storielle della vita altrui? Esperienze scontate, che tutti abbiamo vissuto, e non elevate a valore universale – grazie alla ricerca musicale e lirica sottostante – come nel caso della poetica di una Fiona Apple, di una conterranea Patrizia Laquidara, ma lasciate, per l’appunto, al loro transiente valore terreno, quello che consta di “strade che portano ad altre campagne/mutande”. Guardo, vedo, ascolto ragazzi citare i versi, mai particolarmente ispirati, dei Canova, come fonte poetica d’eccellenza: come fonte d’esperienza, di realtà.
Forse l’indie, questa scena quasi tutta romana – sarà l’effetto Virginia Raggi – è figlia di un tempo sostanzialmente triste, scevro di contatto umano? Non lo so, non ho la presunzione di indagare così profondamente l’animo umano altrui.
Ma c’è una sostanziale differenza, dunque, con quella wave dei Dari, dei Finley prima di loro. Questi ultimi si rivolgevano a persone felici. Con potenzialità davanti a sé. Con un futuro sì nebbioso, ma capace di schiudersi passo dopo passo; canova e Gazzelle, forse, questa visione di bellavita futura, non limitata a cenare col 50% grazie a TheFork, non l’hanno mai neanche considerata. Siamo invecchiati. Siamo invecchiati tutti.
Eppure, all’arte, agli artisti, si sarebbe chiesto di più
A tutti i nomi di cui sopra, che non ripeterò e che non analizzerò – perché, lo si sa, se ne ascolta uno, si conoscono tutti – si sarebbe chiesto di più, per emergere. Un tempo, ci sarebbe stata maggior competizione per la fetta di notorietà. Un tema, un fulcro, un focus. Una ricerca. Una novità. Una personalità musicale ed artistica, oltre che umana. Si sarebbe dovuta chiedere un’Arte superiore al popolo, che sì, si rivolgesse a loro, a noi, loro, giovani ragazzi bistrattati dagli eventi, ma che fosse capace non solo di intrattenerli o deprimerli, di farne vacillare le già scarse certezze su quanto buttare il cuore oltre l’ostacolo, ma anche, e soprattutto, di educare, di educare al cazzo di culto del bello. Che non c’è più. Perché in questa wave, tutta Romana, tutta figlia della città eterna, nata sotto l’ombra della cupola di San Pietro e in mezzo alle rovine di una civiltà antichissima e potente, non c’è mai stata bellezza. C’è stato piattume. Piattume della comfort zone di un apatico.
Si sarebbe chiesto forse non un manifesto programmatico, ma degli intenti. La curiosità della psichedelia. L’aspirazione celestiale del prog. L’energia dell’heavy metal. Un intento che non fosse solamente conquistare le folle regalando loro esperienze inventate e mai vissute dai fruitori in prima persona. O, forse, infine, semplicemente, si sarebbero dovute chiedere risate. Le risate degli Elii.
È a voi che mi rivolgo. A voi che avete creduto che la tristezza l’avrebbe avuta vinta: ma non ci siete riusciti. Il collante che strizzava insieme i Canova è esploso come fulminato di mercurio, anche loro sono cresciuti, invecchiati, e hanno iniziato, forse, a vivere davvero, e non solo raccontare fantasie di serate alcoliche nemmeno troppo intense.
Ora, che l’indie è morto – che il dittatore è stato impiccato – possiamo tornare a dirlo: almeno i Dari facevano ridere. Voi, tutti voi, non ci avete neanche mai fatto piangere.
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