Il 31 luglio è uscito Such Pretty Forks in the Road, il nono album di inediti di Alanis Morissette. Il lancio, previsto per maggio, è slittato a causa del dilagare della pandemia.
La storia di Alanis Morissette, nata a Ottawa il 1° giugno del 1974, è peculiare ma nemmeno così rara. Sono infatti tanti gli artisti che passano tutta la carriera cercando di ripetere il successo della loro opera prima, rimanendo puntualmente frustrati.
Il debutto di Alanis, il celebre Jagged Little Pill che nel 1995 vendette al primo colpo 30 milioni di copie, fa parte di quei fenomeni che sfuggono alle regole del mercato. Va precisato che la giovane Morissette, all’epoca aveva già pubblicato due dischi a nome “Alanis”, di discreto successo ma totalmente diversi da quello che farà in seguito.
Quando le radio iniziarono a passare You Oughta Know, con l’urlo liberatorio della canadese e le liriche ribelli che solo a vent’anni è lecito scrivere, si innescò un meccanismo che il marketing non poteva prevedere.
La voce di Alanis, poi, era particolarissima; poco educata, forse, ma efficace nel rendere l’emozione e la rabbia di una generazione indecisa sulla strada da prendere.
Era del resto un buon periodo per le voci femminili, e Alanis Morissette – con le dovute differenze – finì per diventare la risposta americana a Dolores O’Riordan dei Cranberries. Gli anni novanta furono anche gli ultimi in cui un disco poteva registrare simili dati di vendita, la rivoluzione digitale era infatti alle porte, e con lei una paurosa frammentazione del mercato.
Le grandi promesse però, si sa, raramente vengono mantenute, e la carriera di Alanis Morissette raramente si è mantenuta sui livelli del debutto.
E così, tra viaggi in India e illuminazioni spirituali forse un po’ precoci, qualche flop e vicende personali tormentate, venticinque anni sono passati e Alanis è ancora un nome bello grosso nello showbiz.
Such Pretty Forks in the Road esce preannunciato da tre singoli, Reasons I Drink, Smiling e Diagnosis.
L’album segue dopo ben otto anni Havoc and Bright Lights – ma in mezzo c’è stato il ventennale di Jagged Little Pill e il musical dedicato – e ripropone una Alanis molto centrata, ma la cui proposta rischia di suonare un po’ datata per l’ostico periodo musicale.
Le parti migliori del disco sono le ballad, a partire dall’apertura di Smiling, dove la voce di Alanis risalta in tutto il suo splendore. E va detto che il tempo ha in questo senso aiutato la canadese: la sua voce si è arricchita di nuove sfumature ed asseconda in modo perfetto soprattutto i brani più evocativi.
Smiling si apre con un arpeggio di chitarra elettrica cristallino, su cui si staglia con grande efficacia la voce di Alanis Morissette.
L’atmosfera rimane sospesa per gran parte del pezzo, prima di aprirsi in un arrangiamento più tradizionalmente rock. La successiva Ablaze si muove inizialmente sullo stesso canovaccio in chiave meno malinconica; le atmosfere sono molto affini ai primi lavori, tanto che viene da chiedersi se il mondo musicale abbia ancora bisogno di suoni così smaccatamente 90’s.
Reasons I Drink è una bella tirata sostenuta da un pianoforte che dà il ritmo, prima che un ritornello pop non renda il pezzo quanto di più radiofonico si possa immaginare. Nessun dubbio: i fan di Alanis Morissette, quelli che sono cresciuti con lei, la canteranno a squarciagola negli stadi, quando ci si potrà tornare.
Diagnosis è dedicata al delicato tema della depressione post parto, con cui Alanis ha dovuto fare i conti, ed è forse il passaggio più riuscito del lavoro.
Una ballata che si regge su una fragile base di piano e col misurato apporto degli archi. Un coro angelico doppia il cantato di Alanis nel finale, chiudendo un pezzo davvero di grande classe.
Purtroppo a questo punto il disco, prodotto insieme a Michael Farrell, inizia un po’ ad appiattirsi; tra pianoforti e tempi rallentati, i pezzi prendono a somigliarsi un po’ troppo, rendendo l’ascolto a tratti pesante. Si distingue ancora una ballata da brivido, Reckoning e un paio di pezzi più veloci che stanno a metà tra U2 e l’epica degli Arcade Fire, Sandbox Love e Nemesis. Pedestal chiude con l’ennesima ballata, stavolta dedicata alle disavventure finanziarie di Alanis.
In sostanza siamo di fronte a un ritorno che offre passaggi di classe cristallina, ma anche un po’ di noia e arrangiamenti che a volte non brillano certo di luce propria. Un lavoro, quello di Alanis Morissette, che sicuramente accontenterà i tanti fan che l’hanno sempre seguita e che non tradisce in nessun modo la cifra stilistica della canadese, ma che certo non lascerà grandi segni nell’inospitale mercato attuale e nella storia della musica.
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