Scrivere di cantautori non è per niente facile. Troppi sono gli aspetti da considerare, proprio perché la canzone d’autore – espressione che agli artisti stessi non sempre suona bene nell’orecchio – riunisce in sé una componente verbale, una musicale e trae forza dall’incisività che solo una particolare interpretazione del brano può dare.
C’è da dire che ancora oggi un libro sulla canzone d’autore è visto come un prodotto di nicchia, una lettura per pochi appassionati che dopo l’ascolto di una canzone, per quanto appagati da quanto hanno sentito, avvertono il bisogno di approfondire, rielaborare, capire. E un libro può fare al caso loro.
L’ultimo lavoro di Paolo Talanca, Fra la via Emilia e il West. Francesco Guccini: le radici, i luoghi, la poetica, edito da Hoepli nel 2019, si presenta come un libro “diverso”, un libro che cerca di uscire dalla nicchia per far comprendere al pubblico di un cantautore – in questo caso un vero mostro sacro della canzone italiana – che si può essere qualcosa di più di un semplice ascoltatore.
Il libro si inserisce in una collana editoriale di recente creazione dedicata alla storia della canzone italiana, voluta da una nota casa editrice che ci aveva abituato a ben altre letture. Chiara è la volontà di far familiarizzare un pubblico di ascoltatori con un approccio più “scientifico”, in grado di svelare certi segreti, certe curiosità che non si manifestano apertamente dopo un semplice ascolto.
Il pubblico più indicato per un libro come questo è forse proprio quello che, catturato da una voce, da un pensiero, da una strofa desidera saperne di più, andare più a fondo. Un neofita, insomma. E se questo era lo scopo, Talanca ha buone possibilità di riuscita.
La struttura è estremamente lineare: diviso in nove capitoli, il volume segue il filo cronologico e tende a percorrere tutta la vita del cantautore, dagli anni dell’infanzia ai primi incerti movimenti nel mondo della musica, fino ad arrivare alla consacrazione artistica e al definitivo ritiro dalle scene. Arricchiscono il volume la prefazione di Gianni Mura e due sezioni conclusive: una contenente un’intervista inedita fatta dall’autore a Guccini, l’altra una carrellata di giudizi e commenti di personalità che hanno studiato il modo di fare musica del cantautore o hanno condiviso con lui una parte del suo percorso artistico e della sua vita.
Nel trattare l’argomento, Talanca traccia un itinerario delle città che hanno segnato la crescita di Guccini, ricollegandosi a una prassi non estranea alla critica musicale e, in un certo senso, suggerita dallo stesso cantautore attraverso tre opere letterarie sospese tra aneddotica e romanzo. A fare da sfondo a Croniche epafaniche (1989), Vacca d’un cane (1993) e Cittanova blues (2003) è proprio il rapporto che l’artista intrattiene con Pavana, sull’Appennino tosco-emiliano, Modena e Bologna dagli anni in cui era bambino a quando, divenuto adulto, inizia ad accettare un volto che lo fa sembrare un altro, con quella prorompente barba che diverrà il suo segno distintivo.
Talanca tratteggia con precisione il rapporto creatosi tra il cantautore e queste città, rievocando momenti e impressioni attraverso un frequente ricorso a fonti esterne, in primis testimonianze di Guccini stesso. Viene così fuori il rapporto elegiaco con Pavana, paese delle radici, paese di ricordi, dove la nostalgia si fa sentire con più insistenza e che certo ha inciso sul pensiero e la poetica di Guccini più di quanto non possa sembrare.
Modena è la città da lasciare, per quanto qui Guccini sia nato e abbia trascorso gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza. Qui muove i suoi primi passi nel mondo della musica, conosce gli amici che poi andranno a costituire band di successo, con le quali collaborerà, come i Nomadi e l’Equipe 84, e si cimenterà persino nella professione di giornalista. Ma non riuscirà mai ad accettare quella città come propria. Diversamente da quanto accadrà a Bologna. Il capoluogo emiliano diventa la sua casa a partire dagli anni Sessanta e lo vivrà appieno, diventandone in un certo senso uno degli spiriti tutelari, come Lucio Dalla, che percorrono la città in lungo e in largo, animandola, scoprendola, mostrandola nella sua autenticità.
Un aspetto su cui Talanca insiste tanto, dimostrando ancora una volta di serbare un’attenzione del tutto particolare verso i luoghi di Guccini, è la frequentazione di trattorie e osterie. A più riprese ricorrono i nomi della trattoria “Da Vito” o dell’“Osteria delle Dame”, punti di incontro e di ritrovo che, partendo da un buon piatto di pasta al ragù o da una partita a carte, aggiungevano qualcosa di indimenticabile a quegli anni di vagabondaggi artistici e di lunghe notti trascorse tra “angoscia e un po’ di vino”.
Talanca tende anche a ragionare secondo una logica che non dispiace alla critica letteraria, ricostruendo la carriera di Guccini alla luce dei suoi album, quasi a voler definire, tramite i titoli di queste opere, delle tappe fondamentali di un lungo viaggio, fatto di scoperte e di delusioni. Emerge un percorso frastagliato, un cantautore ricco di valori e allo stesso tempo assillato da un perenne senso del dubbio, fedele al proprio carattere e alle proprie idee, ma disposto a rivedere quelle idee di fronte a esperienze nuove, disarmanti.
Il caso più eclatante è certo quello che lo lega all’immagine degli Stati Uniti. Come molti altri della sua generazione, anche Guccini subì il fascino di quel continente lontano, l’America, che assorbì per mezzo delle divise dei soldati che transitavano per Pavana durante la Liberazione o attraverso la rivoluzione, non esclusivamente musicale, introdotta dal rock e dal beat.
Il mito si sfaldò, sgretolando una certezza a cui Guccini si era aggrappato negli anni della giovinezza, quando il cantautore compì nel 1970 un viaggio negli Stati Uniti. Ne tornò indietro deluso, abbattuto, come un bambino che si vede sfilare dalle mani il suo giocattolo preferito. E la delusione lo accompagnerà a lungo, segnandolo nel profondo, se, ancora nel 2004, in Cristoforo Colombo, definirà l’America un “circo illusorio”.
Ci sono nel libro dei passi che potevano essere sviluppati meglio, come le parti, spesso racchiuse in un box colorato, dedicate all’approfondimento di singoli brani. Il lettore è invitato a entrare nella canzone, ma ne esce con notizie e considerazioni che non scavano mai troppo a fondo e in qualche modo deludono le attese. In compenso bisogna dare merito a Talanca di aver saputo restituire le atmosfere della vita di Guccini, forse stereotipandole un po’, ma con una vivacità di immagini che proietta il lettore in luoghi che oggi stenteremmo a riconoscere come paesaggi gucciniani.
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