Affascinante, magnetico ed elegante. Netflix tira fuori dal calderone La Regina degli Scacchi, una delle migliori serie degli ultimi anni. Con una straordinaria interpretazione di Anya Taylor-Joy, una meticolosa attenzione ai dettagli e una trama intrigante
Rivalità, duelli, scontri, vincitori e vinti. No, non sto parlando di un film di Ridley Scott, ma de La Regina degli Scacchi, o meglio, The Queen’s Gambit. Una miniserie Netflix di prestigio, che il gigante dello streaming dovrebbe produrre più spesso per non farci abituare alla dubbia qualità di prodotti come Emily in Paris, per intenderci, ma trascinandoci all’interno di uno spettacolo brillante e raffinato. La protagonista è un’eroina con il cervello come superpotere.
Basato sul romanzo di Walter Tevis, la serie in sette episodi è co-creata e diretta da Scott Frank. La Regina degli Scacchi è quel tipo di dramma carismatico e non scontato che piace a me, che riflette le dinamiche di una condizione sociale e psicologica, che mette a confronto i lati più reconditi dell’animo, arrivando a fare i conti con le sfaccettature di una personalità complessa e lacerata dagli eventi.
Il primo grande pregio della miniserie è il fascino dell’ambientazione e lo scontro USA-URSS non da un lato apertamente politico, ma sportivo.
Ci troviamo in un’America a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, nel pieno della Guerra Fredda, dove nascere donna era matematicamente partire in svantaggio, perché la sua condizione era relegata al desolante binomio moglie-madre, in una società centrata su una cultura maschilista e ideali ultra conservatori. Stereotipi fastidiosi sponsorizzati dalla politica e dai media dell’epoca, in cui l’immagine della famiglia tipo dell’heartland statunitense era pericolosamente minata dal modello sovietico.
La storia si apre nel 1967 a Parigi, quando una giovane donna (Anya Taylor-Joy) si sveglia, si butta nella vasca da bagno, prende qualche pillola mandate giù con una bottiglia di vodka e corre al piano di sotto per la sua partita di scacchi. Quando si siede di fronte al suo avversario, prendono vita i ricordi e la sua mente corre indietro di oltre 10 anni prima. Un tuffo temporale grazie all’ormai collaudata struttura del flashback ci fanno conoscere la disadattata Beth Harmon (Isla Johnston) che si ritrova sola in un austero orfanotrofio del Kentucky negli anni ’50, accompagnata da un vano ricordo del tentativo di suicidio di sua madre.
Il rigore e la rigidità dell’istituto, l’indifferenza e l’inizio di una dipendenza da psicofarmaci la portano a cercare conforto nel seminterrato della struttura, dove incontra il solitario e burbero custode Mr. Shaibel (Bill Camp). L’uomo, inizialmente riluttante alla ragazzina, la inizia alla scoperta del gioco degli scacchi, capendo ben presto di avere davanti un prodigio, capace di visualizzare le partite a mente.
Ad incoraggiare l’adolescente Beth ad emergere in quello che era considerato un gioco per uomini è la madre adottiva, Alma Wheatley (Marielle Heller) che, a parte qualche incomprensione, sarà un’alleata preziosa, costituendo con lei una relazione di sostegno e “sfruttamento” reciproco. Così la ragazza gioca, vince, viaggia tra l’America e l’Europa e scala la classifica mondiale.
Altre spalle l’aiuteranno lungo la strada, in particolare la collega orfana Jolene (Moses Ingram), una voce di esperienza e proporzione, il campione statunitense Benny Watts (Thomas Brodie-Sangster), un ragazzo non convenzionale con un cappello da cowboy, e il primo rivale Townes (Jacob Fortune Lloyd), poi fidato amico. Tutti loro l’aiuteranno ad affrontare l’acerrimo rivale russo Vasily Borgov (Marcin Dorociński) per farla diventare “la regina degli scacchi”.
A parte un iniziale scambio di convenevoli, gli scacchi sono uno sport silente. Ed è così che Beth si comporta anche nella vita. La sua angoscia è talmente interiorizzata che l’unico modo per filtrarla è muovere le pedine sulla scacchiera. Lì impara a conoscersi, con gli avversari è spietata e implacabile. Ho amato il modo in cui siede di fronte ai suoi sfidanti – perlopiù uomini arroganti e sorpresi di vedere una ragazzina dinanzi a loro così sicura e irreprensibile – e con il più breve degli sguardi li trafigge. Ed è in quel preciso istante che Beth sa di aver vinto.
Ma il nemico che Beth deve sconfiggere non siede intorno ad una scacchiera. E’ un nemico pericoloso, una minaccia costante. La sua partita contro le dipendenze è quella più complessa, a tratti delirante, che non la rende libera di vivere. In lei abita la paura di perdere e la necessità di dover dimostrare agli altri di esistere e di valere qualcosa, una necessità che troppe volte passa attraverso cocktail chimici formati da alcool e ansiolitici.
Fra momenti di apatia e di umanità, Beth sbaglia, si fa male, cade e si rialza, sempre guidata dalla bussola degli scacchi. Il suo è un confronto costante con sé stessa e con uno sport nel quale non conta il genere dell’avversario, il suo aspetto, l’età o il colore della pelle, non importa se è comunista o meno, importa solo il gioco che esprime.
La Regina degli Scacchi è uno spettacolo virtuoso.
Nel corso degli episodi apprendiamo la difesa siciliana o l’apertura spagnola, ma non è una serie incentrata sui tecnicismi. Anche il più ignorante in materia riesce ad alienarsi completamente alle vicende, godendo di ogni fotogramma. Questo perché il regista e sceneggiatore Scott Frank è un narratore acuto ed intelligente per lasciarsi distrarre dalle minuzie. La camera non la rivolge sulla scacchiera, bensì sui volti degli attori.
Affida la guida delle sequenze alle emozioni e ai sentimenti dei personaggi. Una scelta registica audace e straordinaria, una sfida ambiziosa vinta e stravinta. Quando Beth vince, non lo capiamo dallo “scacco matto al Re” o dalla caduta di una torre. Lo vediamo dagli occhi eloquenti e comunicativi di una straordinaria ed ipnotica Anya Taylor-Joy.
Meravigliosa è la colonna sonora che porta la firma di Carlos Rafael Riviera. Mentre la scenografia è elegantissima e composta. Ma l’emancipazione e il riscatto sociale passa attraverso la scelta di abiti raffinati: da un look retrò stile anni ’60 che ricorda tanto Jackie Kennedy, passa alla moda dello swinging London, che strizza l’occhio alla pop culture.
Per concludere, La Regina degli Scacchi è una storia di solitudine e dipendenza, mette in scena il genio e la sregolatezza, ma anche la resilienza e il riscatto di una baby prodigio, dove la scacchiera da muro di isolamento e separazione dagli altri diventa un ponte per conoscersi e capirsi.
Una bellissima metafora di vita, che altro non è che una partita a scacchi, in cui ogni mossa ha delle conseguenze, dove non puoi tornare indietro, ma solo cambiare strategia.
La Regina degli Scacchi sfiora la perfezione. Per questo non è per tutti, ma per chi ha buongusto.
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