Thy Catafalque sorprende ancora con “Vadak” (Recensione)

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Il 25 giugno è la data d’uscita, per l’etichetta Season of Mist, di Vadak, l’ultimo lavoro dell’artista ungherese Tamás Kátai, in arte Thy Catafalque.

Un anno e cinque mesi dall’uscita di Naiv, che segnò la definitiva (o forse l’ennesima) consacrazione di Kátai, ma anche la conferma di un linguaggio sonoro ormai ben al di là dei confini del “metallo nero” da cui la musica di Thy Catafalque aveva preso il largo ormai più di vent’anni fa. 

Come solo la musica maggiore sa fare, si trattava di un arte povera di paragoni, difficilmente catalogabile. Era black metal? Era progressive? Era avanguardia? Era tutte e tre le cose insieme, e probabilmente altro ancora. E come accade in questi casi, il tutto era maggiore della somma delle sue parti. Con Naiv, Tamás Kátai si affermava come uno dei più importanti compositori di musica “pesante” del panorama internazionale. Era del tutto naturale temere che a nemmeno due anni di distanza dall’uscita di quel capolavoro (termine spesso abusato ma che in questo caso è ben speso) fosse difficile anche solo avvicinarsi alla stessa profondità e ricchezza di idee. Ma le previsioni sono fatte per essere smentite.

Con il nuovo lavoro scopriamo che la musica di Thy Catafalque non regge confronti non solo con il resto del mondo, ma nemmeno con se stessa. Non esiste un quantificatore della performance musicale, non “misuriamo” il livello di un album e, nel caso di Vadak, siamo di fronte a un’opera di tale personalità che qualsiasi tentativo in tal senso sarebbe mal posto. Nel giro di un anno e mezzo Kátai è riuscito a prendere ciò che aveva fatto, rivisitarlo, aggiungere (pochi) elementi e arrivare a un prodotto che spiazza di fatto qualsiasi conclusione possiamo aver raggiunto in precedenza.

Thy Catafalque Vadak

Il recensore musicale si trova puntualmente nella scomoda posizione di dover analizzare quella che per l’ascoltatore “normale” è anzitutto un’esperienza complessiva, come tale non facilmente scomponibile nelle sue parti. Procedendo secondo questa linea, a notarsi in Vadak sono anzitutto una conferma dell’onnipresenza della componente elettronica (il Katái “programmatore” prende spesso il sopravvento sul Katái strumentista) e una maggiore presenza di elementi folklorici, verosimilmente tratti dalle tradizioni popolari ungheresi. Da questo secondo punto di vista, Thy Catafalque sfrutta anche stavolta una serie di strumenti inusuali per il genere (ma quale genere?), a cominciare dai fiati (suonati dal russo Artem Koryapin), la tabla, il dudek e altri strumenti percussivi, il violino e il violoncello. Un terzo elemento da segnalare è che a dispetto dei molteplici guest vocalist le parti cantate, incluse quelle di Katái, sembrano a tratti perdersi nel mare di suoni e del turbinio di emozioni, quasi letteralmente senza sosta, dell’album.

Il risultato sono dieci brani di straordinaria personalità, ciascuno dei quali costituisce un piccolo mondo musicale. Szarvas dà il via a Vadak con un tappeto di note che ricorda il krautrock più elettronico, improvvisamente coperto da un drumming feroce e da un cantato lo-fi che sembra rifarsi ai primi lavori di Varg Vikernes. La costante rimodulazione degli elementi presenti e l’introduzione graduale di nuovi “punti di vista” sulla canzone, qui come in altri casi, dà la sensazione di un vero e proprio “storytelling” musicale. Köszöntsd a Hajnalt introduce un motivo celtico, accompagnato dalla chitarra in una sorta di dialogo con la suggestiva voce di Martina Veronika Horváth. Gömböc si apre con un riff più aggressivo, presto addolcito da un accompagnamento elettronico che ci conduce per mano all’interno di una foresta di suoni. Maestro di sinestesie, con Thy Catafalque è difficile resistere alla sensazione che, nell’ascolto, stiamo in effetti “vedendo” ciò che sentiamo.

Non da meno la successiva Az energiamegmaradás törvénye, dai suoni più metallici e penetranti, dapprima animata da una furia e una frenesia che troviamo in pochi altri momenti dell’album, ma che si placa verso la metà del brano per condurci su sentieri più agevoli e paesaggi più dolci. La prima metà di Vadak si conclude con Móló, dieci minuti che danno l’opportunità di sviluppare un vero e proprio viaggio attraverso territori disparati, dall’elettronica al metal, passando per suggestioni “dark-synth”, in un revival ottantiano oggi molto di moda ma rielaborato con la consueta dose di carattere.

Nella seconda metà di Vadak si aggiungono nuove prospettive, che contribuiscono ad arricchire ulteriormente un lavoro già poliedrico nella sua prima metà. Troviamo anzitutto il piglio jazzato di A kupolaváros titka, con un groove delicato intessuto da piano e batteria e coronato da un sax esperto. Abbiamo l’incredibile esperienza folk di Kiscsikó (Irénke dala), che sembra accompagnarci tra i villaggi di una civiltà preindustriale, in una sorta di sospensione tra passato e futuro. Il brano, da questo punto di vista, è ben completato dal successivo Piros-sárga, attraversato anch’esso da impressioni “popolari”.

I due brani di chiusura rimescolano ulteriormente le carte. La title-track Vadak (Az átváltozás rítusai) è quanto di più vicino a un brano black metal potreste trovare all’interno dell’album, ma il piglio, le idee, la compresenza di diversi episodi all’interno dei dodici minuti, ne fanno qualcosa di più. Dopo qualche minuto, il blast beat lascia infatti il campo a percussioni e strumenti ad arco, che dipingono un affresco suggestivo caratterizzato dalla compresenza di più linguaggi: un brano “progressivo” aggiornato alla nuova epoca. Thy Catafalque sceglie di salutarci con un ulteriore colpo di teatro: nella conclusiva Zúzmara, è di nuovo la voce di Horváth accompagnata da un pianoforte soffuso ad aggiungere una carica drammatica inusitata, e più cupa, a chiusura di un album già di per sé di grande ricchezza.

Anche quest’album di Thy Catafalque è, insomma, un’esperienza di ascolto a tutto tondo. Dall’intreccio di ritmi e melodie inusuali all’uso raffinato di strumenti a fiato e ad arco, dall’adozione esperta di sampling e programming agli arrangiamenti poliedrici, per arrivare all’estrema nonchalance con cui Katái prende a prestito dalle tradizioni slaviche e non solo, rimescolandole con il mainstream musicale, tutto concorre alla produzione di un album dove nulla è lasciato al caso e il compositore adopera una molteplicità di fonti per dipingere un affresco musicale originale e coeso. Non contento di aver regalato al pubblico uno dei migliori album del 2020, Thy Catafalque punta a ribadire, con Vadak, un nuovo sorprendente primato nell’anno in corso. Appuntamento al 2022?

Federico Morganti
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