Marco Bellocchio torna a parlare di Aldo Moro e lo fa in 6 puntate su Rai 1. Esterno Notte racchiude il fallimento di uno Stato intero, la sconfitta dell’inten to di pacificare un paese. Fabrizio Gifuni, nei panni del presidente della DC, firma la sua interpretazione più intensa, in una serie televisiva che non dimenticheremo facilmente
Nel 1980 Italo Calvino dà alle stampe Metterci una pietra sopra, una raccolta di saggi e discorsi che dipingono il fallimento dell’autore come intellettuale impegnato, dello scollamento tra la società, la letteratura e il giornalismo, incapaci oramai di incidere e modificare il mondo circostante. Il titolo scelto da Calvino è deciso, il momento è passato, il distacco da quel riferimento è reale, sufficientemente lontano da poterlo analizzare come fosse un momento fissato, un percorso concluso.
Esterno Notte di Marco Bellocchio segue lo stesso identico schema. È prima di tutto il racconto di un fallimento; il fallimento dello Stato, della DC, della Chiesa, ma anche delle BR e del loro intento sovversivo e rivoluzionario, di una società incapace di guardarsi allo specchio, di una classe di intellettuali scollati dalla realtà che li circonda.
Arriva a più di 40 anni di distanza dall’omicidio di Moro e a quasi 10 da Buongiorno Notte, il film del 2003 in cui lo stesso Bellocchio raccontava esclusivamente della prigionia del presidente della DC presso il covo delle BR in Via Montalcini.
Tra l’altro primo misunderstanding a cui si rischia di andare incontro è proprio in riferimento al film, poiché si potrebbe pensare che il regista abbia sfruttato il momento e il consenso ottenuto con Il Traditore per compiere un’operazione di remake, invece non è così, la strada percorsa è quella della complementarietà.
Buongiorno Notte è divenuto un racconto inserito in quello più ampio di Esterno Notte, una digressione di un regista il cui sguardo nel frattempo si è allargato, non più al solo Moro e alla sua prigionia ma a tutto ciò che gli ruota attorno: I compagni della DC, divisi in mille correnti. Papa Paolo VI e tutto il mondo cattolico; le Brigate Rosse, anch’esse spaccate in colonne e dissidi interni, diversi per sensibilità, obbiettivi e modalità; la famiglia, stretta nel dolore, nella compostezza, in un’austerità che non lasciano mai.
Bellocchio sfrutta al meglio il formato della serialità televisiva e costruisce una serie composta da episodi monografici con una narrazione orizzontale, dedicando ogni puntata ad un tema e per ogni tema trova un personaggio che lo rappresenti, il tutto in un continuo tornare indietro dove lo spettatore rivive ogni volta gli stessi snodi cruciali da prospettive e con attori diversi.
Il primo che scorgiamo è il Cossiga di Fausto Russo Alesi, a cui, più di tutti, è affidato il tema della colpa. Dopo il primo episodio c’è la necessità di mantenere alto il senso della gravità della vicenda e Bellocchio consegna questo compito al personaggio dell’allora Ministro dell’Interno.
Nell’ottica della trama, con lui approfondiamo il ruolo svolto dal governo e dal mondo politico e su di lui grava, più che sugli altri, il peso della responsabilità. Il regista ce lo presenta come qualcuno tormentato, diviso tra le necessità che sembrano imporgli il suo ruolo istituzionale e il sentimento di amicizia che lo lega a Moro. Il suo fallimento personale è quello dell’intera classe dirigenziale.
Paolo VI rappresenta invece l’immobilismo, l’incapacità di compiere azioni concrete, che è in realtà propria anche di altri personaggi, Cossiga e Zaccagnini su tutti.
Il ruolo è qui affidato a Toni Servillo e c’è subito da fare un plauso alle scelte di Bellocchio riguardo al cast. Sarebbe infatti risultato eccessivamente facile e accattivante riproporlo nel ruolo di Andreotti, ammiccando a Il Divo e puntando sulla performance iconica che l’attore diede nel film di Sorrentino.
L’interpretazione di Servillo è tutta in sottrazione, chiamata a rappresentare gli ultimi mesi di vita di Papa Paolo VI tra la contrizione, anche fisica oltre che spirituale, come ben ci mostrano le scene del cilicio, e la volontà di fare tutto ciò che è in suo potere per salvare Moro. Quello che ne risulta è però un immobilismo di fondo, un lavorare nell’ombra che appare vano sin dal principio e che si risolve con l’appello lanciato ai brigadisti, interpretato subito come un segno di resa e rassegnazione.
Con le Brigate Rosse invece Bellocchio sembra ritornare a Buongiorno Notte. Nella puntata a loro dedicata il rischio di sovrapposizione delle due opere è alto, ma il regista è sufficientemente abile nei modi e preciso nelle intenzioni da scacciare questo pericolo, pur non facendo mancare qualche rilevante rimando.
Il filo rosso che lega le due opere è dato dalla centralità della figura femminile. In entrambi i lavori le BR sono raccontate dal punto di vista delle donne, in Esterno Notte è quello di Adriana Faranda, compagna di Valerio Morucci, mentre nel film del 2003 il volto era quello di Anna Braghetti, il cui personaggio appare ora brevemente in due occasioni, senza mai intervenire direttamente.
Sul piano della trama a cambiare sono soprattutto i luoghi, non ci troviamo più all’interno dell’appartamento in cui le BR tenevano Moro, che è sì rappresentato, ma appare quasi fuori dallo spazio, di modo che debba essere chiara la vaghezza della sua posizione geografica e aperta la possibilità che sia ovunque.
Il cambiamento vero rispetto a Buongiorno Notte è però sul piano tematico. Il film del 2003 portava in scena il sequestro e la prigionia, il fulcro era dato dal processo delle BR nei confronti di Moro e dal conflitto interno del personaggio di Anna, divisa tra la quotidianità e l’appartenenza alla lotta armata.
In Esterno Notte la scelta è già stata compiuta, la domanda si è già risolta, il personaggio di Adriana Faranda ha già sacrificato la propria vita personale per seguire il sogno della rivolta. Lo spazio qui è tutto giocato sul dubbio e sul rimorso, quello di Faranda, che guarda la figlia che ha dovuto abbandonare uscire da scuola accompagnata dalla nonna, quella di Morucci, che ammette di non credere forse più alla possibilità di cambiare lo Stato attraverso la lotta.
Il loro fallimento risiede anche in questo, non solo in quello più generale delle BR, di non aver modificato lo Stato come avrebbero voluto, ma quello personale di aver sacrificato tutto per un ideale ritrovandosi difronte alla sconfitta dei loro intenti.
Nel penultimo atto di questa tragedia contemporanea, quando a salire dev’essere anche l’effetto drammaturgico della vicenda, Bellocchio lascia spazio al dolore e alla compostezza della famiglia di Aldo Moro seguendo lo sguardo della moglie, Eleonora Chiavarelli, interpretata da Margherita Buy.
Tutto l’episodio gira attorno all’assenza di Aldo Moro, così come in realtà, a ben guardare, tutta la serie, fatta eccezione per la prima e l’ultima puntata. Quello di Moro è solamente un fantasma che aleggia tra i personaggi narrati, nelle allucinazioni di Cossiga, nei discorsi delle BR e qui nel ricordo di Chiavarelli, che lo vede mancare al proprio fianco nel letto, seduto alla propria scrivania e a capotavola nel salotto di casa.
Il personaggio di Margherita Buy è lo specchio del carattere del marito, cerca di sopperire alla sua naturale leadership facendosi punto di riferimento saldo per la famiglia, si ritrova a gestire la stampa, a respingere le condoglianze e il pietismo dei politici della DC.
Dimostra poi anche una fermezza, che fino a quel punto è mancata al personaggio di Moro, nel mettere di fronte alle proprie responsabilità sia Zaccagnini, che qui ricopre un ruolo minimo, quasi una comparsa, che soprattutto Cossiga, ricordandogli il legame di amicizia e il debito che egli ha nei confronti del marito.
Se per tutta la sezione centrale della serie, Moro non appare mai veramente al centro delle vicenda ma la permea sua malgrado, nel primo e nell’ultimo episodio viene fuori tutta la sua centralità.
La scelta di Fabrizio Gifuni è perfetta, un’intuizione non attribuibile in realtà a Bellocchio ma che il regista ha il merito di riprendere da Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana, dove l’attore interpreta, in pochissime scene, un poco più giovane Moro alle prese con la strage di Piazza Fontana e l’omicidio dell’anarchico Pinelli, eventi dai quali nasceranno tra l’altro le primissime Brigate Rosse.
Già nel poco minutaggio a sua disposizione nel film di Giordana, Gifuni aveva dato prova di essere in grado di calarsi perfettamente nei panni del personaggio, ma con Bellocchio tira fuori una prova attoriale sublime, capace di rendere il personaggio di Moro ancora più sfaccettato cambiando spesso registro, dal Moro riflessivo nei discorsi con gli altri esponenti della DC, a quello pacato e intimo nei confronti della famiglia, fino alla rassegnazione e alla rabbia del Moro prigioniero, condannato e consapevole del destino a cui va incontro.
Lo stesso tono del racconto, per tutta la sua durata, si adatta e prende le sembianze di questo personaggio, la storia è narrata con il suo ritmo, che è quello di Moro. Bellocchio non ha bisogno di spiegare i fatti, lo spettatore conosce già la vicenda, le date e i suoi luoghi sono entrati oramai stabilmente nell’immaginario collettivo, la costruzione della tensione non può giocare quindi sulla imprevedibilità della trama e per costruirsi punta sulla gravità del momento.
Tutta la serie è impregnata, e non potrebbe essere altrimenti, dall’attesa dell’orrore del rapimento prima, della condanna poi e infine, della morte. Per questo spiazzano e stupiscono quei momenti in cui non solo ci si dimentica questo epilogo, ma lo si nega.
Basti pensare al momento assolutamente ucronico con cui si apre la serie, un Moro uscito vivo dalla prigionia, nel proprio letto d’ospedale, che professa il suo allontanamento dagli ambienti della DC che non hanno fatto nulla per salvarlo. Si tratta però di un solo momento, che sarà poi ripreso anche nella puntata finale, ma al quale fa subito seguito il ritorno alla realtà, quella chiamata, tremenda, con cui Mario Moretti annuncia la morte del politico e indica Via Caetani come il luogo in cui trovarne il corpo.
Non si deve prendere pertanto quell’intenzione iniziale come fosse il tentativo di ripensare la storia, non c’è alcun intento revisionistico, nessuna possibilità che possa essere assimilabile a quanto visto, per esempio, nel finale di Once upon a time in America di Tarantino, l’intera scena è puramente simbolica e può essere attribuita alla mente di Cossiga, che perfino un attimo prima della fine spera in un epilogo diverso.
Non è quella poi l’unica scena ad avere un forte impatto simbolico, ce ne sono molte disseminate lungo le puntate e tra queste, siamo sicuri, la più iconica rimarrà quella della Via Crucis, vero manifesto del messaggio della serie.
E’ Moro a portare la croce, le BR, come ammetterà anche Mario Moretti nel bellissimo libro-intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda, non facevano alcuna distinzione tra lui e Andreotti, fu scelto in quanto, tra i rappresentati della DC, era quello più avvicinabile. Dietro di lui la schiera dei suoi compagni di partito, che lo seguono. Un simbolo. Un martire. Un prezzo da pagare.
Bellocchio, ora che può guardare con distacco sufficiente a quella stagione della Prima Repubblica, firma un capolavoro di straordinaria stratificazione. Una serie che non semplifica ma anzi, abbraccia la complessità del momento, che non spiega ma racconta, che lascia in ombra tutto ciò che ancora è rimasto nell’ambito della vaghezza e che è sostenuta da una serie di maestranze, dagli attori, ai costumisti alla fotografia in pieno stato di grazia.
Esterno Notte non segna un nuovo passo per la carriera del regista, ne è invece la summa totale. Lo è per le tematiche affrontate, per la sua durata, ceramente maggiore di quella che possa essere un prodotto cinematografico ma consona a quello che vuole raccontare, per il livello produttivo nel suo complesso che ne fa un prodotto esportabile, comprensibile da chiunque nel suo soffermarsi sulle vicende umane prima che su quelle storiche.
In questo senso l’opera di Bellocchio riesce laddove Romanzo di una strage mostrava il fianco, ossia nel farsi racconto collettivo anche riunciando alla pretesa, presente nel film di Giordana, di dire qualcosa di nuovo. Esterno Notte segue anzi il percorso opposto, riduce al minimo le informazioni storiche, i nomi, i luoghi per esaltare ancora di più la complessità delle figure raccontate.
Le ultimissime scene della serie sono dedicate a filmati di repertorio successivi alla scomparsa di Moro e che ritraggono i protagonisti nel proseguire delle loro vite, le elezioni a Presidente della Repubblica di Pertini e Cossiga, gli arresti delle BR, il continuo della carriera politico di Andreotti, a testimoniare la responsabilità di tutti, non solo quella politica ma soprattutto quella nei confronti della memoria.
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