Triangle of Sadness: filtri raccontati senza filtri [Recensione]

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Ruben Östlund conquista nuovamente la Palma d’Oro a Cannes con il suo lungometraggio Triangle of Sadness.

Carl e Yaya sono una giovane coppia di modelli che vivono grazie a sfilate e selfie sui social network. La loro relazione però è in crisi: Carl vorrebbe qualcosa di più autentico e profondo, Yaya invece no. In effetti, Yaya sembrerebbe interessata a Carl solo per una relazione di facciata. L’apice della tensione tra i due si raggiunge al ristorante, Carl cerca di abbattere lo stereotipo di coppia e di genere per il quale deve essere sempre l’uomo a pagare il conto: come da copione della vita scoppia una scenata improvvisa, i due abbandonano il ristorante, Carl la incalza nella foga emotiva. Yaya si aprirà un po’ di più, rivelando aspetti oscuri della sua personalità. Una volta chiariti alcuni dubbi tra di loro, la coppia è pronta per una crociera di lusso ottenuta grazie al loro status da influencer. Le cose tra i due saranno migliorate? Cosa vuole davvero raccontarci Ruben Östlund?

L’infelicità produce inestetismi e il “triangolo della tristezza”(Triangle of Sadness) è una fossetta che viene a formarsi tra le sopracciglia e il naso, un inestetismo che deve essere a tutti i costi eliminato a suon di botox. Nel mondo delle persone di successo non ci si può permettere di essere brutti, né tantomeno di essere infelici. Questo vale ancora di più nel mondo della moda dove le emozioni sono rigidamente asservite alla comunicazione del brand. Östlund accende la miccia sin dalla prima sequenza, dove con una lentissima carrellata in avanti, i modelli vengono messi in fila e devono preparare delle espressioni in base al brand di riferimento. Via libera al classismo nella moda e del fashion, a partire dalla sua comunicazione: per il brand Balenciaga i modelli devono posare con uno sguardo algido e altezzoso perché il brand deve comunicare di essere irraggiungibile ed esclusivo; per H&M invece si posa con un sorriso scanzonato, il target è letteralmente chiunque e la parola chiave è accessibilità.

triangle of sadness recensione

Ma oltre al Triangle of Sadness, il film assomiglia anche ad un triangolo scaleno con i suoi tre lati diseguali: i tre atti del film, infatti, sono molto diversi tra loro per scelte del racconto. La prima parte del film – spiacevolmente – più breve, esplora le ipocrisie del sistema della moda, riagganciandosi per intenti al precedente lavoro del regista The Square (2018) in cui Östlund aveva demolito con tanta sagacia il sistema museale. La seconda parte, invece, si sposta su una crociera di lusso in cui, oltre che a smontare quel tipo di sistema già noto ai più, Östlund inscena una sequenza di nausea collettiva in cui tutti i ricchi passeggeri prendono parte all’esclusiva cena con il capitano della nave. Eppure, qualcosa va storto, tra piatti unici e sorrisi affabili dei camerieri, la facciata un po’ alla volta cade a pezzi per rivelare una cena da incubo. E qui torna alla mente il celebre sketch in “Monty Python: Il senso della vita” in cui un uomo benestante, grasso e rozzo dal nome di Mr. Creosote siede al tavolo e comincia a divorare portata dopo portata, rigurgitandosi addosso per poi esplodere quando viene convinto dal cameriere ad inghiottire una mentina. Con toni ripugnanti molto simili, Östlund trasforma la sequenza di vomito in un atto punitivo e di purificazione collettiva in cui il rigetto serve ad espellere tutta la bile accumulata con privilegi, ingordigia e malefatte. Ma attenzione, se nel secondo atto questi attributi sembrano profilare i vincenti del capitalismo, nel terzo atto Östlund rigira la frittata e rappresenta una società anticapitalista e meritocratica, altrettanto spietata e ingiusta.

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Quella della nave stato, tutt’oggi impiegata nei discorsi politici, è una metafora che attraversa secoli di letteratura sin dal poeta greco Pindaro per poi essere ripresa dal tragediografo Eschilo e raggiungere l’apice della notorietà con Dante definendola una nave senza nocchiere in gran tempesta nel canto VI del Purgatorio. Ruben Östlund riprende appieno questa metafora, la nave però viene trasformata in uno yacht, il simbolo per eccellenza del vanto sociale e del materialismo più sfrenato. Lo yacht funziona come una marca da bollo o un timbro che convalida al suo possessore lo status di super ricchezza. E se nella sua dimensione gargantuesca lo yacht emana un forte senso di potere, Östlund non si dimentica certo della dimensione verticale. Lo yacht, proprio come un condominio, è fatto di più piani. Quello superiore è riservato alle camere lussuose degli ospiti, quello inferiore ai camerieri che vengono spronati dal direttore di sala Paula (Vicky Berlin) nel tramutarsi in degli yessir per tutta la durate della crociera e, nella foga del momento, prendono a battere fragorosamente mani e piedi al grido di “soldi!”. Perfino il piano di sotto, quello degli addetti alle pulizie e degli inservienti, quieto e isolato comincia a tremare dinnanzi all’agitazione e all’esuberanza dei camerieri. Quasi come se ci fosse un terremoto e tutta la baracca rischiasse di crollare in un boato.

Triangle of Sadness: filtri raccontati senza filtri [Recensione] 1

Del resto, la carica nichilista di Triangle of Sadness emerge già dalle sequenze che vedono il disilluso capitano alcolizzato e marxista dello Yacht (Woody Harrelson) e il magnate russo Dimitrij (Zlakto Burić) arricchitosi dopo la dissoluzione dell’URSS vendendo fertilizzanti (“Vendo merda” ripeterà più volte una volta preso il controllo del megafono dello Yacht ormai perduto in balia della tempesta e dei coati di vomito). Due persone destinate a odiarsi profondamente ma che invece trascorrono la tempesta nel totale delirio, bevendo amichevolmente e sfidandosi a colpi di citazioni dei più svariati intellettuali e politici, guardando dallo smartphone perché quelle citazioni nemmeno riescono a ricordarsele. Dall’appiattimento totale dei valori, delle idee e delle ideologie ne emerge anche una riflessione sulle forme che ha ormai assunto il dibattito contemporaneo. Ripresi con continui angle shot sia per simulare l’oscillazione della nave in tempesta, sia per simboleggiare la stortura dei due personaggi. L’escalation di eventi sullo yacht porterà infine ad un attacco e i pochi superstiti approderanno su un’isola.

Triangle of Sadness: filtri raccontati senza filtri [Recensione] 2

Inizia così il terzo e ultimo atto di Triangle of Sadness che inscena un rovesciamento del ruolo dei personaggi: protagonisti e comprimari diventano subordinati ad una figura come quella dell’inserviente Abigail (Dolly Deleon), marginalizzata nella realtà diegetica così come nella nostra. L’isola del naufragio diventa luogo di azzeramento della società ma proprio qui arriva la grande sferzata di Ruben Östlund: l’isola sfocia in uno stato solo apparentemente meritocratico ma nella realtà dei fatti socialista di deriva autoritaria e poliziesca. Il pieno senso di rivalsa sociale crea l’ennesimo regime in cui Abigail impiega le abilità maturate durante anni di lavori malpagati e sfruttati come quelle di saper pescare e pulire un pesce per controllare gli altri attraverso un accentramento dei beni di prima necessità e una ridistribuzione di essi, premiando in particolar modo coloro che le sono più fedeli. Il tutto abilmente servito e condito con un tocco di realismo magico: dagli strani versi animaleschi che avvolgono l’isola, alla signora tedesca che soffre di disturbi del linguaggio e continua ad urlare “In den wolken” (=”tra le nuvole”), un venditore ambulante che si palesa improvvisamente nel bel mezzo del nulla e l’altra inaccessibile parte dell’isola che risolverà il mistero finale.

In conclusione, Triangle of Sadness di Ruben Östlund conferma il processo di conversione dell’autore già avviato con il precedente The Square verso un cinema a più ampio budget, uscendo dai panni del cineasta svedese distribuito qua e là e indossando quelli del campione del circuito festivaliero internazionale.

Cosa ben evidenziata da Roy Menarini che aggiunge inoltre che con Triangle of Sadness siamo a tutti gli effetti di fronte ad una: “trasformazione pop del discorso critico godardiano e post-godardiano”. Il risultato è interessante.


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