“Camminavo lungo la strada con due amici – quando il sole tramontò – il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue – mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto – sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”. Nizza, 22 gennaio 1892.
E’ con queste parole, riportate sul suo diario, che Edvard Munch descrisse la scena che ispirò il suo quadro più famoso e uno dei più celebri del secolo.
“Il grido”, intitolato dall’autore “De Schrei der Nature”- “L’urlo della natura”- incarna il sentimento di disperazione e di disagio che permea l’anima artistica a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento.
Partendo dalle violente e pastose pennellate di questa tela è facile instaurare una relazione temporale con Munch: il rosso opaco e i colori caldi spenti e velati sembrano quasi animarsi in una triste danza angosciante, mentre l’urlo lancinante strappa la scena e deforma la natura circostante, invasa dal dolore di un unico grande cuore.
Chi era il celebre Munch
Edvard Munch nacque a Loten, in Norvegia, nel 1863, e la sua lunga vita, spesa tra il freddo del nord Europa, gli recò fin da bambino una grande tristezza: la madre morì di tubercolosi e poco dopo anche la sorella spirò per la stessa malattia. Il padre, sopraffatto dai lutti familiari, cadde vittima di pietismo eccessivo e di una sindrome maniaco-depressiva.
L’ambiente in cui visse e i traumi provati resero la vita del giovane Munch macabra e lenta e proprio per il suo dolore oggi possiamo ammirare le più incisive ed intense incarnazioni di nostalgia.
Unica strada di riscatto, un baratto coraggioso: la sua felicità in cambio dell’arte per il mondo e per il tempo.
Oggi, 12 dicembre 2021, l’artista espressionista avrebbe compiuto 158 anni.
E non è difficile credere che ancora avrebbe suscitato un “violento scoppio di indignazione morale” nella società.
Munch, infatti, non voleva compiacere un pubblico borghese, una vita inconcludente ed un abbandono ai vizi mondani. La sua “Sera sul viale Karl Johan” è l’emblema del disinteresse e della solitudine nascosta dietro alle frivolezze della media società, che si ritrova spesso a compiere rituali inutili come la camminata di metà pomeriggio, immersa in una folla di persone tutte estranee fra loro.
Persuaso dalla filosofia di Kierkegaard, Munch si ispirò ad un’esperienza autobiografica scritta nelle sue pagine:
“Mi ritrovai sul Boulevard des Italiens, con le lampade elettriche bianche e i becchi a gas gialli, con migliaia di volti estranei che alla luce elettrica avevano l’aria di fantasmi”.
Le parole dell’artista riecheggiano ancora più forti nel mondo odierno, per la strada, sui mezzi pubblici, sui social networks: un’alienazione costante e ridondante, che ci obbliga silente a seguire regole ordinarie non scritte.
Le sue tele dovevano raccontare, raccontare la natura dell’uomo, il morbo di distruzione che inietta nel mondo, e la sua storia, fatta di malinconia e nonconformismo.
Parlare attraverso i pennelli e i colori era ciò che gli veniva più naturale, e naturale gli era anche dire la verità, da sempre scomoda per tutti.
Fuggiamo dal dolore e da tutto ciò che non possiamo spiegare: la morte, l’ansia, la paura, la malattia.
Sono tutte sensazioni e realtà che fanno sorgere in noi quel soffocato e rotto “Perché?”.
Edvard Munch non aveva paura di mostrare al mondo la sua risposta.
Edvard Munch non aveva paura di mostrare al mondo come vedeva quella nube di mistero che aleggia la vita e i sentimenti umani, i più logoranti, ma comuni a tutti.
Edvard Munch non avrebbe mai potuto censurare una verità così intima e celata della fragilità umana, perchè “ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere dal sangue del nostro cuore. L’arte è il sangue del nostro cuore”.
Forse non è mai morto davvero, Edvard Munch. Forse il suo monito è in ogni via, in ogni piccolo gesto di chi non ha paura di mostrare la sua nuda sofferenza.
Lo puoi vedere ancora lì, sulla strada dipinta nella “Sera sul viale di Karl Johan”, in quella figura nera che si staglia isolata sulla destra, forse poco notabile, mentre cammina spalle al mondo, controcorrente, allontanandosi solitario da quel trambusto di chi non vuole conoscere cosa vi sia gelosamente nascosto dietro il velo di Maya.
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