È fuori da un paio di mesi il terzo lavoro di Michael Kiwanuka, e noi abbiamo aspettato prima di parlarne, visto che già tutti lo facevano.
Pare infatti che il 32enne di origini ugandesi – ma nato nell’inglesissimo quartiere londinese di Muswell Hill – sia venuto ora di moda. Eppure è già qualche anno che il nome di Kiwanuka spicca sul taccuino di chi crede che ancora un po’ di spazio per la musica ben suonata e cantata, e ancor prima pensata, ci sia.
E, come spesso accade, il lavoro che lo porta alla ribalta probabilmente non è il suo migliore.
Nel 2016 Love & Hate aveva fatto quasi gridare al miracolo: un album di soul blues psichedelico nobilitato dalle tante nobili ascendenze ma moderno al tempo stesso; Cold Little Heart, che l’apriva, era una cavalcata di dieci minuti con la chitarra del nostro in grande evidenza. Quasi una bestemmia in tempi in cui i rari solo dello strumento devono durare quanto “a quick one”, come direbbero gli Who.
Cresciuto nello stesso quartiere che diede il via alla parabola dei Kinks, il giovane Michael passa i giorni giovanili a consumare i dischi dei grandi. Ne esce con l’amore per la chitarra e con uno stile che omaggia i grandi del soul, specie nella bella voce. Il risultato è un mix tra demoni hendrixiani e tentazioni soul di Marvin Gaye, Bill Withers e il più vicino a noi Ben Harper.
Il nuovo disco, dal titolo eponimo quasi a voler dichiarare che Michael Kiwanuka è finalmente in pace con se stesso e col suo nome, è un’ottima prosecuzione del discorso.
Magari meno coraggioso e con un occhio ben aperto sul mercato, ma comunque ottimo. Manca forse un anthem come Black Man In A White World, ma l’impegno sociale rimane sempre sotto traccia, tra le righe, per esplodere nella bellissima Hero, dedicata a Fred Hampton, giovane Pantera Nera uccisa dalla polizia nel ’69.
Michael Kiwanuka si apre con l’approccio quasi world di You Ain’t The Problem, per proseguire con Rolling e I’ve Been Dazed, due pezzi per cui i Coldplay farebbero le proverbiali carte false.
Il disco – pur non essendolo – ricorda la struttura di un concept, essendo i pezzi uniti da raccordi strumentali. Piano Joint, divisa in due, pare uscita da qualche classico di blaxploitation, ma, come la successiva Another Human Being, è davvero troppo blanda per lasciare il segno. Living In Denial è un soul d’altri tempi che agita i fantasmi di Marvin Gaye e Bill Withers. E arriviamo alle due parti di Hero, forse l’apice del lavoro; un primo capitolo acustico e un secondo più elettrico, con una chitarra ammiccante e un andamento hendrixiano alla Hey Joe. Un pezzo riuscito e davvero senza tempo.
Si va avanti tra qualche bel passaggio – la dilatata Light – e altri tutto sommato evitabili, a chiudere un lavoro cui forse avrebbe giovato una maggiore compattezza.
Sicuramente più solare del precedente Love & Hate, Michael Kiwanuka gli è tuttavia leggermente inferiore; se il primo meritava un otto pieno, questo raggiunge e supera il sette, senza però strafare. A testimonianza che la raggiunta pace con se stessi – seppur auspicabile per tutti – raramente dia i natali al capolavoro della carriera.
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