Nel 1976 uscì un classico del prog rock: Leftoverture dei Kansas. Quadruplice disco di platino, fruttò infinite fortune alla band americana. Ma fu anche duramente stroncato.
Avete mai visto Supernatural?
Sì, dai. Se non avete vissuto sotto un sasso negli ultimi vent’anni, vi siete imbattuti nelle avventure di Sam e Dean Winchester. E avete sentito, almeno una volta in vita vostra, Carry on Wayward Son dei Kansas. Ciò perché il brano del classico Leftoverture dei Kansas è stato utilizzato in molteplici episodi ed è stato scelto dalla fanbase come vero e proprio inno.
Ed è uno dei brani più famosi del prog classico, uno di quei motivetti che tanta gente canticchia senza sapere da dove proviene. Proviene, in realtà, da uno degli album più belli di una band già mitologica di per sé: i Kansas.
Sebbene il loro sound, almeno degli inizi, sembri provenire più dalla scena di Canterbury – Soft Machine, Caravan, Camel – i Kansas sono una band americanissima. I componenti fondatori vengono da Topeka, appunto nel Kansas: basti sapere che i primi anni, a partire dal 1969, sono letteralmente un coacervo di varie line-up differenti non degne di nota, e che il vero e proprio debutto dei Kansas si ebbe nel 1974 con l’album omonimo e la lineup constava di Phil Ehart alla batteria, Dave Hope al basso, Kerry Livgren alle chitarre e alla voce (nonchè principale compositore), Robby Steinhardt a violino e voce, Steve Walsh tuttofare a voce, tastiere e percussioni, e infine Rich Williams all’altra chitarra.
Ecco, già quell’album fu recepito dalla critica specializzata come sì una rivelazione, ma che peccava d’ingenuità: i Kansas si distinsero dal marasma che li circondava sostanzialmente per l’avere un sound incredibilmente divertente. Boogie boogie, improvvisazioni jazz ballabili, ed il violino impazzito di Steinhardt rendevano fruibile un album ricchissimo di cambi di accordo, di accortezze tecniche ma che, allo stesso tempo, forse era fin troppo ambizioso. Brani come Aperçu, però, spiccano ancora per modernità – non ci sentite un po’ di Cockroach King degli Haken, in quel sound che ora chiameremmo “prog avant garde”?
Comunque, gli anni passarono, e Song for America e Masque seguirono Kansas; il successo commerciale arrivò, però, con Leftoverture. Per farvi capire l’epoca nella quale ci troviamo, nel 1976 i Kansas accompagnavano nientepopodimenochè i Queen nel loro tour americano, quello di Sheer Heart Attack – insomma, tutto si intreccia. Che sia stata la fissazione di Freddie Mercury per l’opera ad influenzare la composizione da parte di Livgren di Leftoverture?
Partiamo dalla copertina. Sì, ragazzi, non vi siete sbagliati: gli spartiti sono di carta igienica ed un vecchio filosofo col mal di testa che annota su un rotolo – che si srotola verso l’infinito e oltre – i titoli dei brani su di essa con un altrettana vecchia penna e calamaio. L’artwork fu proposto alla band, come raccontato da Ehart, da Dave McCacken, all’epoca un rispettato artista. Ecco, credo che premesso ciò, siete abbastanza addentro all’animo fondamentalmente goliardico che animava i Kansas dell’epoca – lontanissimi dalle pazzie più o meno riuscite di Robert Fripp con una delle sue tante incarnazioni dei King Crimson.
Leftoverture si apre con la hit Carry on Wayward Son:
un sound epico, drammatico, e allo stesso tempo divertentissimo, con frequenti rimandi alla musica folk europea; Carry on Wayward Son è un inno incredibilmente moderno, con quei riff di chitarra di Livgren che sembrano composti l’altroieri. Se si ascolta il brano abbastanza a lungo, però, si colgono rimandi (“Masquerading as a man with a reason –
My charade is the event of the season”) ad un capolavoro – americanissimo – della letteratura: Il Grande Gatsby di Scott Fitzgerald, un romanzo che non ha proprio un epilogo granchè positivo. Nel finale, però, la voce di Walsh si auspica che il “figliol prodigo” torni ad appoggiare la sua testa sulla spalla accogliente del padre e che, cristologicamente, tutto andrà bene. Anche se il figliol prodigo è deve nascondere fra le pieghe della tunica il suo orgoglio.
The Wall dei Kansas venne qualche anno prima rispetto a quella dei Pink Floyd, ed è un brano radicalmente diverso. Un rock rotondo, orchestrazioni classiche al piano e di synth di elevatissima qualità – perfettamente disegnati, sferici, accoglienti, fra organi ed il violino di Steinhardt – che si trascina placida come un mare ondoso ma che culla l’ascoltatore con quel piacere che non disturba l’apparato vestibolare. Qui cominciamo a godere del sound dei “nuovi” Kansas, che abbandonano gli americanismi dei Credence Clearwater Revival di Kansas e Songs of America per lanciarsi in sperimentazioni operistiche fini – come l’arte dovrebbe essere – a se stesse. What’s on My Mind prosegue sulla stessa scia, in cui si colgono vaghe influenze dei Blue Oyster Cult e dei Journey.
Ma eccoci, finalmente, ad un’altra hit – uno di quei brani che ti fa girare la testa per cercare da dove proviene il rumore. Miracles out of Nowhere riprende la storia lasciata in sospeso del Wayward Son, spostando il focus però sul padre del figliol prodigo, che si lancia in una lunga riflessione sull’Amore. Lo chiede all’anziana madre, che però non fornisce una risposta; lo chiede ad un pazzo, che si limita a guardarlo con occhi umidi e a ridere con bocca sdentata; lo chiede a se stesso – sottofondo d’organo da chiesa – e conclude che l’amore è sempre là, nascosto in quei miracoli che appaiono dal nulla. La già ecclesiastica Miracles out of Nowhere lascia poi spazio a Opus Insert, divertentissimo brano Hammond-driven che si presta a grandi cori live esattamente come Carry on Wayward Son.
Gli splendidi synth disegnati da Livgren e Walsh introducono il brano, forse, più inglese di Leftoverture: Questions of My Childhood. C’è un grande e graditissimo ritorno: quello del forse sottosfruttato violino di Steinhardt, che rende il tutto a là Lamb Lies Down on Broadway dei Genesis. Per ricordare però all’ascoltatore di trovarsi nel Nuovo Mondo, ecco che arriva Cheyenne Anthem, una ballad alla chitarra acustica da cantare attorno al fuoco, che si avvicenda col piano ed il violino.
Come capita tuttora nel prog, però, il meglio è lasciato alla fine. Magnum Opus, doveva essere il titolo originale di Leftoverture: e Magnum Opus è il brano finale dell’album. Se vogliamo paragonarla ad un lavoro odierno, recentissimo, vi direi di accostarla a Singularity da Empath del caro Devin Townsend. C’è dell’hard rock, moltissimo, in Magnum Opus; c’è la libertà artistica ed espressiva di tutti i membri della band, e, soprattutto, tanto divertimento. Pare di vedere il sestetto sorridere, durante la registrazione. Alla faccia di tutti i progster da strapazzo che continuano a dire che Leftoverture è un mero album pop – come se piacere a tutti fosse un difetto.
Forse è proprio qui la radice della fortuna dei Kansas, e, allo stesso tempo, la loro sfortuna come idoli del prog: non sono mai stati accostati ai Jethro Tull o agli Uriah Heep – ma neanche agli Yes. Rimane per me un mistero il pubblico ludibrio del quale i Kansas sono stati vittima dagli altri critici specializzati, sebbene il successivo Point of Know Return non sia schifato come Leftoverture.
Chiunque abbia un po’ di cultura musicale, però, si accorgerà della gigantesca eredità artistica, contemporanea negli anni ’70 e che sfocia fino alle sperimentazioni moderne di band come i Leprous o i Between the Buried and Me – e continuerà a cantare:
Carry on Wayward Son,
There’ll be peace when you are done!
Lay your weary head to rest
Don’t you cry, don’t you cry, no more!
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Quello che chiamate “boogie boogie” nei Kansas non è altro che la rielaborazione elettrica di alcune ballate indiane del Nord America… Temi musicali che si possono individuare in molte canzoni del primo periodo, quasi sempre nella parte centrale dei pezzi, prima tra tutti “Song for America” e “Cheyenne Anthem”. Asserire che i Kansas fossero “musicalmente ingenui” la dice lunga sull’incompetenza del ceto medio americano e dei loro giornalisti (cosa che si estende amplificata oltreoceano, specialmente nel “paese del bel canto”…). I Kansas si sono sempre presi a cuore le problematiche delle minoranze di ogni genere senza mai contraddirsi o nascondersi dietro ipocrisie del caso non solo artisticamente ma concretamente con la fondazione di una chiesa cristiana da parte di Kerry Livgren coadiuvato da Dave Hope: cosa che anche un senza dio come me non può che apprezzare. “Leftoverture” è un capolavoro ed i Kansas un grande gruppo dal cuore immenso sia artisticamente che umanamente come pochi ne sono esistiti e come oggi ovviamente ancor meno ne esistono.
P.S: quello di Robby Steinhardt in Leftoverture non è un ritorno perchè non se n’era mai andato: lo farà in realtà nel 1983 prima dell’uscita di “Drastic Measures”, primo album dei Kansas senza violino, e rientrerà occasionalmente insieme a Steve Walsh nel 2000 per pubblicare “Somewhere to Elsewhere”… Infine mi dispiace, ma “The Lamb Lies Down On Broadway” sta a “Leftoverture”, eccetto l’accostamento di genere, come i cavoli a merenda e dire che il violino avvicina i due dischi, per una band come i Genesis dove gli archi sono stati presi in considerazione solo da Tony Banks con il suono del Mellotron e di qualche synths, è a dir poco azzardato.
ciao Glauco! Grazie del bellissimo commento. Apprendo ora questa citazione alla musica tradizionale indiana, approfondirò. Il bello dei Kansas è stato, ed è ancora, nonostante credo che l’ultimo album abbia avuto poco musicalmente da dire, il seguire un proprio personalissimo percorso. LA stampa dell’epoca, perdonami la parola, di Leftouveture, non ci capì un cazzo. Si sono mangiati le mani quarant’anni dopo.
Mi dispiace non concordiamo sull’assonanza fra i due album, capisco la genesi differente del sound e degli archi stessi, ma ad un orecchio profano – purtroppo non ho mai suonato prog – l’effetto a posteriori è estremamente simile, essendo il periodo lo stesso. Ossia, musica complessa, ma estremamente fruibile.
Un abbraccio!
Giulia
Ciao Giulia, intanto grazie per aver prestato attenzione al mio commento: al giorno d’oggi non è cosa da poco…
Concordo con te sull’assonanza del genere ed i Genesis sono per chi ti scrive il non plus ultra (in positivo) della musica contemporanea. Però credimi (scusa se ti sembrerò presuntuoso, ma ho suonato e cantato prog e non solo per tanti anni…), se ti dico che musicalmente sono abbastanza diversi. I Kansas traggono il loro sound dal pomp rock americano già in voga al tempo di Leftoverture e Point of Know Return, con un suono certamente progressive ma distante dalle sonorità tipicamente anglosassoni dei Genesis. The Lamb inoltre è sostanzialmente avulso dalle produzioni precedenti come in parte lo è Selling England. Riguardo alla complessità siamo d’accordo: entrambe le bands sono molto tecniche anche se i Genesis maggiormente, hanno inventato un linguaggio che trae origine dalla Musica Classica, come hanno fatto i King Crimson per il prog sperimentale e poco dopo i Rush, loro veramente unici e pionieri del tecno rock. Se per ultimo disco intendi “The Absence of Presence” non saprei perchè devo ancora ascoltarlo dato che mi sono piacevolmente accorto solo oggi della sua uscita “monitorando”, come spesso faccio, le discografie (credo che me lo “sparerò” stasera stessa ;), mentre se intendi “The Prelude Implicit” devo dire invece che mi ha convinto molto. Magari se ti va ci risentiamo qui nei prossimi giorni per commentare il nuovo disco:).
Ciao Glauco! Dovendo andare più nel dettaglio, concordo con te. Non era il caso di appesantire la recensione con ulteriori analisi sulla ricerca musicale alle radici del prog, ed ho evitato. Sì, parlo di The Absence of Presence, trovi la mia recensione sul nostro sito 🙂 The Prelude Implicit è invece un lavoro validissimo e che ascolto molto spesso e con piacere. Stesso dicasi per i BTBAM!
Ahahah, ascolti anche i Between the Buried and Me; accidenti che donna…